mercoledì 30 dicembre 2015

Buon Anno




                                                                   A TUTTI:

A CHI SPERA, A CHI SBUFFA, A CHI POLEMIZZA, A CHI SORVOLA, A CHI PROGETTA, A CHI ATTENDE, A CHI AMA, A CHI VORREBBE AMARE, A CHI CERCA, A CHI E' SOLO, A CHI VORREBBE ESSERE SOLO, A CHI E' IN LOTTA CON SE STESSO, A CHI E' SEMPLICEMENTE IN CERCA DELLA FELICITA', A CHI VA CONTROCORRENTE, A CHI DESIDERA SOLO PACE E SERENITA'.
                                                               BUON ANNO

martedì 22 dicembre 2015

Buon Natale

                 


   AUGURO UN SERENO E FELICE NATALE A TUTTI VOI, AMICI NOTI, NUOVI AMICI E VIANDANTI OCCASIONALI. A CHIUNQUE PASSERA' DI QUI AUSPICO DI TRASCORRERE       MOMENTI LIETI CHE PORTINO LUCE E SPERANZA PER LA NASCITA DI UN MONDO MIGLIORE. SARA' UNA COSTRUZIONE LENTA, MA STRAORDINARIA: DOPO UN PERCORSO DIFFICILE, CIO' CHE SCATURISCE, E' SEMPRE MIGLIORE! E FORSE, FORSE, I PRIMI LUMICINI SI STANNO ACCENDENDO, SONO FIOCHI, MA CI SONO. 
                                UN ABBRACCIO DI STIMA E AFFETTO A TUTTI!
                                                        BUON NATALE!

giovedì 17 dicembre 2015

Rincorrere il passato

                            


  La mestizia del tempo passato, del tempo che non ci appartiene. Esiste una mestizia del passato che vorremmo rivivere in quanto glorioso dal punto di vista affettivo e emozionale ed esiste una mestizia più deleteria quella senile, quel volersi riappropriare dell'aspetto fisico giovanile che per alcuni è vissuto come condizione di benessere fisico e per altri invece, fortunati loro che il benessere lo possiedono ancora,  significa voler tornare alla bellezza giovanile, al fascino dell'attrazione. 
   Ora considerando che spesso non siamo in grado di accettare il presente al quale attribuiamo diversi difetti, in età infantile non viviamo tanti aggrovigliamenti celebrali, tante elucubrazioni: sinché i genitori sono prodighi d'affetto, pensieri negativi non ne nascono, anche quando le condizioni economiche non possono esaudire ogni desiderio, conta l'affetto e la presenza. 
   In età adolescenziale nascono conflitti con se stessi e con il mondo, per cui se dovessimo ricordare quel periodo nonostante la giovane età, forse non vorremmo tornare indietro. Ma vi sono casi eccezionali, il mondo è variegato, vi sono casi in cui il periodo di transizione è vissuto con grande distacco e la percezione di trovarsi al confine fra infanzia e giovinezza è quasi latente. In quel caso sarebbe bello fare passi indietro. 
   Il periodo successivo, la giovinezza, è un'esplosione di sensazioni, di esperienze, di lotte, di emozioni,di creatività, anche di delusioni, tutto procede perché è la giovane età, l'aspetto fisico, il propellente per tornare a galla, per emozionarsi ancora. 
   L'età matura, già bel traguardo, matura nel senso di pienezza interiore, di percorsi compiuti, di esperienze scelte o rinnegate, di condizioni di vita che a volte rispecchiano i sacrifici fatti e altre in cui accade l'impensabile col quale intraprendere una lotta estenuante per tornare a percorrere la strada della vita.
    Ma esiste per un essere umano la consapevolezza dell'accettazione del momento che gli appartiene? Esiste quella gratitudine che lo porti a pensare che ogni stadio della vita è giusto e va vissuto per quello che gli appartiene? 
   La mestizia del passato, la nostalgia del passato, è giustificata quando vorremmo rivivere quei momenti speciali che hanno costellato la nostra vita e soprattutto a quando le responsabilità e sacrifici erano delegati ai genitori: non è facile essere adulti, anche se è quello il desiderio che vive nei giovanissimi cuori. La mestizia del tempo maturo, inteso come il periodo che va sino alla mezza età, è fatta di considerazione del proprio presente che non ha rispecchiato le aspettative, quindi è una tristezza che nasce da delusioni per ogni sorta di esperienze di vita. 
   Ma come dicevo all'inizio, quella più deleteria è la mestizia senile, quella non accettazione del corpo che cambia, quell'accanimento a voler sembrar giovane a tutti i costi, quel ridicolizzarsi con interventi estetici che trasformano i volti in mummie impressionanti, quella goffaggine estetica con look inappropriati. Esiste un comportamento adeguato per ogni età, come esiste un modo per non apparire vecchi bacucchi, ma attraenti signori che possono essere al passo con i tempi senza eccedere in mancanza di buon gusto e tanto altro.   

venerdì 11 dicembre 2015

Il viottolo

                                                                  

   C’era una vecchia strada, polverosa e contorta ricoperta di sassi, era una stradina di campagna che percorreva di nascosto. “Non andare in quella strada non asfaltata!” le ricordava l’amabile zia “Dicono che ci sia uno strano vagabondo accampato fra i cespugli.”
   Giorgia aveva solo quattordici anni e una curiosità fra le più fervide: l’incognita e il rischio la entusiasmavano. Voleva guardare con i suoi occhi, non credeva alle raccomandazioni e la sua avveduta sicurezza la portava a vivere ciò che le suggeriva il cuore.
    Lo stretto viottolo non aveva nulla di attraente, appariva desolato e sporco, l’unica bordura erano ciuffi d’erba incolta e frastagliata da canne filiformi e secche. Ma Giorgia s’immaginava di giungere in un posto bellissimo nascosto agli occhi di tutti, un luogo che voleva esplorare per prima. Quell’anno i suoi erano partiti per un lungo viaggio, non l’avevano mai fatto prima, e poiché quello era per loro il viaggio di nozze mancato per insufficienza di denaro, avevano affidato la loro unica figlia alla cara zia Giuseppina: l’aria di campagna sarebbe stata un toccasana per la loro ragazzina. Nonostante fosse coraggiosa, Giorgia non si buttava allo sbaraglio all’improvviso, lo faceva per gradi, valutava, agiva con circospezione: quell’astuzia l’aveva ereditata da suo padre che non agiva mai d’impulso, era un uomo intraprendente ma accorto.
   La prima volta percorse il viottolo sconnesso per un certo tratto: non proseguì sino in fondo, giunse a metà percorso e si voltò indietro, uno strano fruscio fra le canne l’aveva messa in allarme. Tornò a casa lievemente impaurita, ma non volle menzionare l’accaduto, se accaduto era stato, piuttosto un rumore sospetto che le aveva creato pensieri e paure.
   Zia Giuseppina era bonaria e briosa, la accolse col sorriso festoso e un succulento pranzo, vera prelibatezza di sapori. La tavola in massello di noce era apparecchiata solo per loro due e Giorgia, mentre sbocconcellava le tagliatelle al ragù, fingendo naturalezza, chiese: “Zia, com’è che non ti sei mai sposata?”
   Giuseppina non si aspettava una domanda così privata, ma sorridendo con indulgenza rispose: “Il vecchio zio, mio padre, allontanò il ragazzo che amavo. Nessuno più ha conquistato il mio cuore. Non preoccuparti cara, io sono felice così, ho questa fattoria che dirigo, le mie giornate sono piene.”
   Il giorno dopo la ragazzina tornò alla stradina polverosa e brulla e s’inoltrò, attraverso le canne vide due occhi scuri che la scrutavano, stava per scappar via, quando una voce la richiamò: “Non andartene, fammi compagnia!”
   Giorgia si fece largo fra i cespugli secchi e vide un uomo coperto di sporcizia, con una folta chioma che, ondeggiando al vento, gli copriva il viso anch’esso annerito dalla polvere. Non sapeva definire le fattezze di quella persona, l’unica cosa certa era lo stato di trascuratezza che scaturiva da quello sconosciuto.
   “Sei tu il vagabondo che vive qui?” chiese Giorgia, tenendosi a debita distanza. “Mia zia, mi dice di non venire qua a curiosare.”
   “Io non so neanche da quanto tempo sono qui, non ricordo. Non ho nessuno, questo lo so, ma perché sono qui, non lo so. Ho paura degli altri e mi nascondo. Tu sei la prima alla quale parlo.” Rispose lo strano tipo con voce roca e sguardo ferito.
   Giorgia custodì il segreto e tutti i giorni si recava nel posto celato, per conversare con lo sconosciuto che faceva progressi di giorno in giorno. Capì che era una persona colta, di nobili sentimenti e di bontà di cuore.
Viveva lì da un tempo non definito e si nutriva dei prodotti spontanei della natura dei quali andava alla ricerca, mentre la sua dimora era un cunicolo all’interno di una grotta. Una vita spartana, d’altri tempi, una vita annullata da chissà quali pregresse sofferenze e tribolazioni.
   “Non conosci neanche il tuo nome?” annunciò Giorgia quella mattina “Ti chiamerò Cosimo, ho un cugino che ti somiglia con questo nome.”
   Erano trascorsi svariati giorni e la ragazza pensò di convincere Cosimo a venire da sua zia, glielo voleva presentare e chissà, avrebbe potuto lavorare lì come contadino.
   “Ti ho portato degli abiti che ho trovato nell’armadio di mia zia, andiamo a quello stagno, ti lavi, ti cambi e poi andiamo! Non ti lascio più qui da solo!”annunciò la ragazzina.
   “Sei uno spettacolo! esordì stupita, quando lo vide comparire attraverso le canne. “Pensa un po’, come sarai dopo aver tagliato i capelli? Andiamo, farai un figurone!”
   Giuseppina, si portò le mani al volto, non credeva ai suoi occhi, la sua faccia sorridente si bagnò di lacrime e singhiozzava come se avesse visto un redivivo che credeva sepolto in un luogo oscuro.
   “Fratello mio, non ho saputo più niente di te. Papà mi aveva detto che eri morto in Africa, in un posto segreto durante un safari con i tuoi amici. Che grande pena! Ho passato anni di tormento!”
   Cosimo, come in un lampo si riappropriò della sua memoria che giungeva a fiotti lenti e poi improvvisi e rievocò quei momenti. Si vide con suo padre durante un alterco, uno scambio d’idee, stava difendendo Mattia, il fidanzato di Giuseppina, un bravo ragazzo con l’unica colpa d’essere povero, quando suo padre per farlo tacere lo colpì sulla testa con un bastone. Ricordò d’essere fuggito come un animale braccato e di essersi svegliato in quella radura nascosta nei campi e lì era rimasto sino all’arrivo di quella curiosa nipotina. Ricordò la ferrea disciplina del padre, la sua chiusura mentale, l’imposizione dei suoi comandi e l’assoluto assoggettamento di Giuseppina.
   Si abbracciarono e si guardarono negli occhi, il tempo avrebbe sciorinato le loro confidenze, il tempo avrebbe lenito i dispiaceri e steso un tappeto nuovo su quell’esistenza recuperata.
  
     

  

lunedì 30 novembre 2015

Calore umano

                                                                    

   Un cenno e comprese. Aveva atteso… quanto? Un tempo interminabile, un lungo scorrere martellante che non gli aveva dato tregua, anche per il luogo, ciò che gli premeva era quella risposta rassicurante, quel riportarlo in vita: diversamente non ne avrebbe avuta una!
   Si era corroso nell’intimo, a cercare quelle risposte che sembravano tutte così superflue e deleterie. Quelle domande erano lì per ricordargli che forse avrebbe potuto, forse l’unico responsabile era lui dalla divisa impeccabile e sobria che incute rispetto; lui dal portamento fiero esecutore della pulizia etica, nulla e nessuno doveva sbarrargli il passo.
   “Un cane cento pecore, cento pecore un cane”, quella inconsueta frase gli martellava nel cervello, l’aveva udita da ragazzino quando suo padre soleva staccarsi la cintura dei pantaloni e lo scudisciava a suon di cinghiate. “Un cane cento pecore, cento pecore un cane”. Che cosa volesse dire, l’aveva compreso più avanti, quella strana filastrocca suo padre la reiterava nei momenti di punizione per ricordargli che il destino umano dei colpevoli è simile a quello degli animali: il cane deve ubbidire e vigilare, altrettanto le pecore che devono ubbidire e non smarrirsi, altrimenti il padrone punisce, riconducendole duramente all’ovile.
   Che strano, perché quei tormenti lo affliggevano proprio ora che cercava conforto? Ma egli, servitore della legge, era da solo con le sue elucubrazioni che trovavano spazio in quel frangente doloroso e anziché lasciarlo in pace, si compattavano con le ansietà del momento. La natura umana è bizzarra: l’inconscio deleterio emerge negli istanti strazianti, come se provasse gusto a instillare gocce brucianti su quelle ferite aperte.
   Era sprofondato sulla poltroncina, era stanco, aveva consumato quel corridoio asettico e cercava riposo sul sedile in eco-pelle, mentre quei pensieri gli scoppiavano sempre nella testa; aveva appoggiato il capo alla parete come a cercare refrigerio al fuoco esplosivo dell’angoscia. Le nocche conficcate nei palmi delle mani che a tratti asciugavano il sudore della fronte bruciante; poi con la mano destra di tanto in tanto scostava una ciocca di capelli, quei capelli tanto accarezzati da colei che aveva saputo amarlo a tal punto da comprendere i suoi strani turbamenti e complessi interiori.
   Era divenuto un uomo di giustizia proprio per sanare quelle conflittualità e dimostrare che con la rettitudine si fa pulizia della sporcizia umana, ma la vita ha un prezzo e il fango della società chiede un riscatto, se lo rimuovi torna per fagocitare prima gli affetti del suo pulitore. E così era stato: esso, “il fango”, aveva atteso e aveva sferrato l’attacco all’affetto più caro dell’esecutore della legge, un colpo preciso in pieno petto e il sangue zampillante si era sparso sul selciato con grande godimento del suo assassino.
   Ora l'uomo di giustizia era in quell'ospedale e sperava in un miracolo, aveva scostato il capo dalla parete e con occhi supplichevoli guardava la vetrata in attesa di notizie confortanti. Un attimo, e la sua vita si frantumò, dallo sguardo di dissenso del chirurgo … comprese. Abbandonò il luogo intriso di disinfettante e si avviò a perdifiato al porto, luogo magico per lui e per lei che non c’era più. Si erano conosciuti lì sul molo, la nave stava salpando per portarli in crociera sul Nilo, da quel giorno il loro viaggio non era mai terminato: sempre e poi sempre un crescendo d’emozioni magiche e d’amore incommensurabile.    
   Crollò sulla banchina e espresse tutto il suo dolore in un pianto convulso e irrefrenabile. La disperazione lo divorava, avrebbe voluto farla finita: la sua adorabile moglie non c'era più, strappata alla vita in modo atroce e solo perché lui difendeva la giustizia. Sentì d’improvviso due braccia robuste che lo stringevano, era il suo compagno di lavoro, un omaccione grande e forte come una roccia, ma dal cuore tenero e tanto umano. Fra quelle braccia con quel calore ebbe la forza di rialzarsi, si abbracciò a lui e s’avviò. Avrebbe avuto giorni bui, giorni di rifiuto alla vita, avrebbe covato il desiderio di vendetta. Avrebbe, avrebbe, certo avrebbe, ma il tempo sa come dare una mano nel percorso della vita.    

venerdì 20 novembre 2015

Dlin, dlin

                       Risultati immagini per ponte crollato per pioggia                                               

   Il cicalino partiva in sordina e diveniva sempre più insistente. “Dlin-dlin, dlin-dlin”, un suono in crescita martellante si diffondeva nella casa alle sei e quindici in punto. Ogni giorno stesso rituale e Federica controvoglia si poneva a sedere sul letto, senza aprire gli occhi spostava i piedi per infilarli nelle pantofole che faticava a trovare: ogni sera le lasciava scompostamente. Giungeva confusa in cucina e restava al buio, le dava fastidio la luce della plafoniera, preferiva muoversi con quei pochi riflessi di luce proveniente dalla strada: abitava a un primo piano e attraverso le fessure delle tapparelle la casa s'illuminava lievemente. Erano sempre quei cinque minuti di primo mattino, a farle desiderare la casa in penombra, poi, Federica prendeva vigore e tornava alla realtà, ma in quei cinque minuti niente e nessuno doveva disturbarla, neanche Fede, il marito.
   Era proprio strana la vita! Aveva fatto incontrare due persone con lo stesso nome, avevano anche sorriso quando s’erano presentati: “Federica – Federico. No!” esclamarono all’unisono. Lei accorciò a lui il nome, in quel simpatico diminutivo. La loro era un’unione scandita dall’amore e dagli scherzi di lui che le rallegrava l'esistenza mai banale, movimentata da quei momenti felici e spensierati.
   Quando Federica quella mattina cominciò a connettere, si rese conto che non erano le sei e quindici, bensì le sette in punto; adirata rivolse il suo pensiero al caro marito buontempone e fra i denti borbottò: “Quando torni, te la farò pagare! Sicuramente hai cambiato l’impostazione della sveglia!”Fede era fuori sede per un congresso: era un medico.
   Come una forsennata si lavò velocemente: il tratto che la separava dall’ospedale era lungo e non le piaceva giungere in ritardo; come medico del reparto gradiva dare il buon esempio ed era sempre giunta in perfetto orario, non avrebbe voluto che mettessero in giro false voci su supposizioni di comodo: aveva ottenuto il lavoro per meriti e non perché moglie del primario.
   Federica sbatté la porta di casa con rabbia e scese velocemente le scale, quella mattina anche l’ascensore le dava buca, era bloccato al piano superiore. Entrò in auto e partì velocemente, nonostante la pioggia battente avesse reso le strade poco praticabili. Percorse la città superando i limiti di velocità consentiti.
   “Sarò multata per eccesso di velocità!” si disse “La giornata è cominciata male e prosegue male, tutto a causa tua, stupido uomo!”imprecò “E rischio anche un incidente!”
   Stava per giungere in ospedale, quando si accorse che un assembramento di persone e auto bloccavano la strada, era il tratto che immetteva al ponte, quel vetusto ponte non ancora ammodernato. Federica accostò, scese dall’auto per rendersi conto del motivo dello sbarramento, mentre la pioggia implacabile scrosciava fittamente. Tutta l’ansia accumulata lasciò il posto allo stupore e allo sconcerto: il ponte era crollato e sotto di esso s'intravedevano auto schiacciate, macerie, fango, corpi di persone, e si udivano lamenti, urla. Sopraggiunsero i vigili, la polizia e le ambulanze, era uno spettacolo irreale. Lei si fece largo e a un poliziotto disse: “Sono un medico!” Prestò i primi soccorsi ed entrò in ambulanza, l’intera giornata la trascorse in ospedale, fortunatamente tanti erano stati tratti in salvo e assistiti egregiamente, l’unico deceduto era il giovane sul motorino.
   Fede aprì la porta di casa con circospezione: si aspettava una sfuriata da sua moglie; lui, quando lei s’inalberava, amava farsi perdonare, cingendola per la vita e baciandola con passione. Era un medico a contatto con le tristi realtà, ma nel quotidiano amava sdrammatizzare divertendosi un po’, proprio per addolcire l’esistenza così preziosa. 
   La cercò e la trovò appisolata sul divano, si accostò e delicatamente le sfiorò la guancia con un bacio; lei, diversamente dalle altre volte, gli saltò al collo e lo strinse con trasporto.
   “Amore, grazie, il tuo scherzo mi ha salvato la vita!” annunciò con emozione.

   Federica aveva appreso che la tragedia si era verificata alla stessa ora in cui lei sistematicamente percorreva il ponte ogni mattina.

sabato 7 novembre 2015

Il rispetto

                                                                       
                     

   S’increspavano e s’infrangevano le schiumose e biancastre onde in piena. L’anima dei flutti esplodeva in un tormento di amarezza e faceva udire il suo diniego al mondo. Il vento sibilava feroce in quel nuovo giorno che si annunciava tempestoso.
   Era da giorni che effettuavano quegli esperimenti al largo della costa oceanica, erano in mare aperto e seguitavano a infastidire quelle acque, una tortura per la fauna marina e la sua flora. Esplosioni a ritmo serrato, uno scombussolamento acquatico privo di rispetto, in una vibrazione senza sosta.
   Glauco, Dio delle acque, era in pena per i suoi abitanti e anche per gli umani: essendo stato anch’egli un uomo, un semplice pescatore che viveva un tempo dei prodotti del mare, comprendeva i danni che quegli scienziati senza rispetto stavano infliggendo al mondo globale. Allora convocò i possenti cetacei, gli insidiosi squali, le pacate tartarughe e pesci di ogni specie e dimensione, per ultimo la famiglia degli invertebrati. Giunsero in blocco frastornati e macilenti, altri infiacchiti e altri ancora avevano perso il senno; si radunarono alla rinfusa in un sit-in sul fondale marino. Glauco, roboante, cercò di richiamare l’attenzione per infondere loro quell’energia che avevano perso, mentre un’esplosione improvvisa sovrastò la sua voce. Atterrito e angosciato il popolo marino stava per inabissarsi, quando il Dio del mare li richiamò, ricordando loro che quegli uomini avevano oltrepassato ogni limite per cui andavano puniti. Il mondo marino si sarebbe rigenerato, mentre gli scienziati senza scrupoli e i loro simili non avrebbero avuto scampo: le acque si sarebbero innalzate fino al cielo e ogni cosa sarebbe andata distrutta. Non meritavano di vivere!
   “Non puoi fare questo!” disse una flebile vocina, era un cucciolo di delfino.
   “Tu, osi contraddirmi, piccolo cetaceo!” esclamò furente Glauco.
   “Signore divino, la mia mamma si era arenata ed è stata soccorsa da due bravi biologi, io non sarei qui se loro non fossero stati così generosi.”    
   Il Dio del mare ripensò a quelle parole e convenne che gli umani non sono tutti uguali: lui aveva vissuto nei panni mortali e aveva incontrato persone disponibili, altre insensibili, altre ancora opportuniste e ingannatrici, ma anche gente generosa pronta a schierarsi per difendere i propri simili. Avrebbe dato loro solo una lezione, un avvertimento, per far comprendere che non andavano sfidate le forze della natura.
   E quella mattina il cielo tuonò, Zeus dette man forte a Glauco, lampi e fulmini si abbatterono sulle coste, si scatenò una tempesta in cielo e in mare e i marosi furenti colpivano a scudisciate le imbarcazioni e le coste, senza clemenza alcuna, sempre con più forza e più vigore. Minuti di panico e di terrore, poi tutto si placò: tornò il sereno, le onde si ritrassero, il mare si acquietò e il vento soffiò come un refolo dolce al profumo salmastro. I balenotteri affiorarono a pelo d’acqua, i delfini fecero piroette, mentre i gabbiani li sorvolavano; le famiglie dei pesci palla, dei pesci rana, tigre e pesci migratori si assemblarono e ripresero a vagare gioiose nelle azzurrine acque. I coralli danzarono in un caleidoscopio di colori, la vegetazione fluttuò alla ricerca della luce, gli abissi marini si animarono in uno spettacolo meraviglioso e paradisiaco.
  Si destò in preda all’ansia, fra qualche giorno avrebbe dovuto salpare: nuovi esperimenti di armamenti chimico batteriologici sarebbero stati ripresi. Quel sogno l’aveva angosciato, egli non era mai stato d’accordo con gli altri ricercatori, ma suo malgrado, aveva approvato il progetto: dirigeva le operazioni. Spalancò le persiane: aveva bisogno di ossigenarsi. Contemplò il cielo terso e ne ammirò la bellezza con nuovi occhi. Mirò la strada alberata del suo quartiere e gioì alla vista del fiore di magnolia, lo stupendo fiore bianco dal profumo delicato pareva un’orchidea pronta per essere offerta in dono ad una sposa. Una coppia di passerotti passò in volo e una farfalla si posò sul suo davanzale, i raggi diretti del sole lo avvilupparono, anzi parevano schiaffeggiarlo.
   ‘Non è giusto!’ pensò.
   Chiuse le imposte, si fece forza e …

lunedì 2 novembre 2015

Gelée alla fragola

                                                       
                          


   Umettavo con la lingua le labbra e quel gusto nauseante era l’unico contatto con la realtà che percepivo distante. Ero in una dimensione che non coglievo, mentre annaspavo nei meandri della memoria cercando di emergere dal limbo oscuro dal quale stavo risalendo. Pian piano giungevano a me suoni ovattati e confusi, voci fastidiose che non riconoscevo; l’unica certezza era quell’intenso sapore di fragola che mi riportò indietro facendomi riappropriare dei miei ricordi.
   “Francesca, mi sposo!” annunciò con gioia stentata Valentina, la mia amica preferita.
   “E quando l’hai conosciuto?” le chiesi meravigliata. Eravamo sempre insieme, tranne i fine settimana, quando io tornavo al paese dai miei, come studentessa fuori sede iscritta alla facoltà di Medicina.
   “L’ho incontrato un sabato pomeriggio all’ingresso del cinema. Lui era lì per la prima visione e poi… ci siamo ritrovati seduti accanto, alla fine del film eravamo amici. Così è nata la nostra storia!”
   “Valentina,” rimarcai “noi ci confidiamo tutto, perché mi hai taciuto un evento così importante? Viviamo insieme da sei anni, sai tutto di me!”
   “Non potevo.” mi confidò a testa bassa “Lui è Alfonso, il tuo Alfonso! Lo so che lo ami ancora.”
Alfonso, lo conoscevo dall’infanzia, era il più bello del nostro paese prospiciente il mare. Ci s'incontrava quasi tutti i giorni e io sentivo il cuore in gola ogni qual volta lo incrociavo, ma fingevo di nulla, quel sentimento che s’affacciava l’avevo taciuto persino alle mie compagne di classe che morivano per lui. Crescendo Alfonso, studente liceale, prosperò anche in bellezza: da adolescente carino ma acerbo, divenne un giovane dal fascino alla Brad Pitt.    
   Io e lui ci incontravamo tutti i giorni, abitavamo nella stessa zona ed eravamo amici fraterni, ma una mattina mentre mi recavo a scuola, lui mi sbarrò la strada ed azzardò: “Andiamocene al mare, per un giorno saltiamo la scuola!”
   Anch’io frequentavo l’istituto di Alfonso, ci separavano tre anni di età, io ero al quinto ginnasio e lui al terzo liceo.
   “Scherzi”, gli risposi sbarrando gli occhi!
   “No! Ho voglia di stare con te!”
   Mi ritrovai al mare, eravamo all’inizio di ottobre e il clima era ancora estivo, non mi preoccupai di nulla e dimenticai i miei, i professori e il mondo intero. Se lui era bello, di me dicevano in giro che ero una brunetta niente male, solo che… io ero una quindicenne insicura che non si piaceva. Con Alfonso, scoprii di essere bella e mi amai come amai lui profondamente, quella mattina nacque una nuova Francesca. Per un anno intero fummo sempre insieme, ma dopo qualche mese dopo la maturità, Alfonso lasciò il paese e si trasferì per frequentare l’università.
   “Non ci saranno problemi, amore.” mi rivelò “Verrò i fine settimana, poi ci sentiremo per telefono, abbiamo la tariffa “You and me”, vedrai… sarà ancora più bello!”
   Pian piano non ci sentimmo più e io non potetti contattarlo, seppi in seguito da amici comuni che aveva cambiato scheda telefonica, non voleva più saperne di me: cambiava ragazza come si cambiano i calzini.
   Dopo aver rivangato, mi rivolsi a Valentina fingendo indifferenza: “Ti sbagli cara, ero innamorata di lui, lui è il passato. Verrò al vostro matrimonio e se vuoi farò anche la testimone!”
   Me lo ritrovai al paese una domenica mattina, mi si parò davanti con nonchalance, come se ci fossimo lasciati il giorno prima.
   “Francesca tu sei stata l’unica per me”, mi confessò con foga. “Avevo paura del sentimento vero che si stava impossessando di me. Ho dovuto farlo… Valentina rappresenta la certezza economica, lo sai quanto è influente suo padre nel mondo politico.”
   “Ma davvero?” sbottai. “Sei solo un arrivista senza sentimenti. Ho perso tempo con te, coltivando quest' amore che mi brucia ancora! Sparisci Alfonso, non preoccuparti ci sarò alle tue nozze, voglio guardarti in faccia quando pronuncerai il ‘si’ per godermi la scena!”
   Ero sull’altare accanto all’altro testimone e non ce la feci. Scappai via, raggiunsi la mia auto e mi sedetti al posto di guida, aprii istintivamente lo sportellino del vano oggetti e presi una gelee alla fragola, continuavo a mangiarne ancora da quando me le aveva offerte Alfonso, durante i nostri passati incontri. Mi pareva di udire la sua voce morbida che mi diceva: “Voglio che i nostri baci sappiano di fragola… frutto afrodisiaco.”
   “Brutto schifoso!” urlai, mentre afferrai la morbida caramella per addentarla con rabbia.
   Partii all’impazzata, svoltando alla prima curva e con un testacoda dopo aver urtato violentemente il guardrail, precipitai nel burrone sottostante.
   Riaprii gli occhi. Quanto tempo è passato, mi chiesi guardandomi intorno? Scorsi i volti dei miei genitori che mi sorridevano paradisiaci e io ciancicai a fior di labbra: “Sono viva?”, mentre quel sapore di fragola non mi lasciava.
   “Bentornata fra noi, cara!” annuì mia madre col volto impastato di lacrime.
   Sibilai un ‘grazie’, volgendo gli occhi al cielo che s’intravedeva attraverso la vetrata di quella camera asettica d’ospedale.



      

martedì 20 ottobre 2015

Conoscenza casuale

                                                              

   

   Devo correre: ho il controllo annuale senologico, prima incombenza il pagamento del ticket con relativa attesa d'innumerevoli presenti e poi sosta obbligata in sala d’aspetto del reparto. Entro con circospezione guardandomi intorno e mi scelgo un posto a sedere in zona angolare che mi dà un senso di ampiezza, detesto gli spazi ristretti, mi soffocano e mi alimentano maggiormente le mie preoccupazioni. L’ambiente è surriscaldato, come buona parte degli ospedali, e mi sfilo il soprabitino che ripiego ordinatamente sulla poltroncina alla mia destra, cerco delle riviste da leggere e ne scorgo una, non è interessante, ma non posso oziare guardando per aria, mi rimprovero di aver dimenticato il libro di lettura a casa, se non avessi perso tempo nella ricerca dell’impegnativa medica, avrei avuto quel romanzo di Pavese fra le mani.
   Ho da poco aperto la pagina del quotidiano locale e mi soffermo su di una notizia, la leggo con attenzione, odo un rumore di passi ed alzo lo sguardo, incontro occhi femminili vivi e sorridenti. Ci salutiamo con cortesia, come se ci conoscessimo da tempo e noto che la mia vicina di sedia si accomoda allegramente e mi rivolge la parola con semplicità e familiarità. Mi piacciono le persone così spontanee che cercano il dialogo: la conversazione anche con persone mai viste prima, è per me gradevole e serve ad ammazzare l’attesa. Inevitabilmente il dialogo scivola sul motivo che ci ha condotto in quel luogo e sull’importanza della prevenzione, poi si affronta anche il piccolo lato doloroso della mammografia: farsi spiaccicare una parte del corpo non è una passeggiata!
   La mia vicina, nonostante l’età non giovanissima, anche se le avrei dato almeno dieci anni in meno, mi confessa di avere ancora quella parte tonda e turgida non sciupata da allattamenti. Le chiedo: “Per libera scelta?” mi risponde che non ce n’è stato bisogno, non ha voluto avere figli per idiosincrasia alla maternità. L’espansiva signora mi narra di aver fatto parte dell’epoca dell’emancipazione femminile e nonostante si fosse sposata giovanissima subito dopo il diploma, ha voluto perseguire la carriera per affermarsi e un figlio avrebbe rappresentato un intralcio, uno stress quotidiano e sicuramente il suo matrimonio non sarebbe stato così idilliaco: dopo più di trent’anni lei e suo marito tubano ancora come due fidanzatini. E poi aggiunge che tante coppie con figli si separano, mentre loro sono ancora in armonia e il marito non le aveva mai chiesto, durante il periodo fertile, di dargli un figlio,tra l’altro quando le era capitato di restare incinta, aveva abortito con il  beneplacito del consorte.
   La osservo e mi soffermo a pensare sul fatto che tante coppie con problemi di sterilità o altro, si sottopongono a cure mediche o all’inseminazione, procreazione assistita, e per ultima spiaggia l’adozione, difficile per le lungaggini burocratiche, mentre questa nuova conoscente ha rinunciato di sua sponte e non per problemi economici o di salute.  Ognuno è libero delle proprie scelte, certamente, ma fin quando un adulto vorrà essere un fanciullo non assumendosi le proprie responsabilità? Poi potremmo scivolare in un altro genere di discorso in riguardo alla procreazione: le incertezze del futuro, la società e i mille pericoli, le problematiche varie e alla fine ritrovarsi, dopo tanto affanno, ad aver speso le proprie energie per figli immeritevoli che nonostante gli sforzi compiuti, da adulti si ritorcono contro i genitori o li ignorano irrimediabilmente. Ma la vita è così, la gioia di un figlio comporta dei rischi e delle rinunce, credo che il desiderio di essere genitore sia insito in noi ed esplode in un certo periodo della vita, ma che sia quello giusto per seguirne la crescita con sprint e mentalità al passo con i tempi: un figlio ha bisogno di un genitore o non di una figura attempata che fatica a stargli dietro.  
   I tempi cambiano, ma per alcuni aspetti cambiano in peggio e le colpe non sono mai da una sola parte, soprattutto per coloro che possono e rinunciano per partito preso! 

  

sabato 10 ottobre 2015

Riflessioni di lettura

                                                        
                                                                            
                                      
                                                                      
  

   Il titolo di un libro è come un incipit adescatore: invoglia, seduce e stuzzica, poi entra in gioco il nome dello scrittore, della casa editrice, in questo caso non vi sono domande da porsi: l’autrice non ha bisogno di presentazioni e di quest’ultima creazione narrativa se n’è parlato. Nonostante ciò il titolo del libro mi ha incuriosita e mi ponevo delle domande, anche sapendo che avrei letto una saga familiare. E allora mi immaginavo che le ciliegie fossero gli avvenimenti felici appartenenti alla famiglia in questione, il cappello come grande paniere di dolcezze, di amori, di conquiste a lieto fine. Poi sono stata introdotta alla storia dalla splendida prefazione di Pierluigi Battista e apprendo che il “cappello pieno di ciliegie” era il copricapo di Caterina, l’arcavola di Oriana, che vive le sue peripezie nel settecento toscano alla vigilia della Rivoluzione Francese. E da qui parte il romanzo, una storia a ritroso che abbraccia circa due secoli, una ricerca nel tempo andato che, per la mole di lavoro, costò alla Fallaci dieci anni di fatica e sempre con lo stesso interrogativo: “Se non fosse andato/a, se non avesse preso quella decisione, se non ci fosse stato quell’evento, "IO non sarei nata?”
   Ed è tutto qui: siamo quello che siamo attraverso i cromosomi che s’intrecciano, i geni che riceviamo, per cui se un tale avo si fosse unito con un’altra persona, le nostre caratteristiche non sarebbero le stesse. Ma la storia di Oriana che scava nel tempo che fu, è un vero trattato di storia che un libro scolastico non ci racconta e il tutto legato alla famiglia Fallaci che ne ha fatto parte.
    Il romanzo, oltre che essere un’opera storica ricca di dettagli e dovizie di particolari impensabili, persino il numero dei componenti dei reggimenti che parteciparono alle varie guerre e rivolte, poi date, descrizioni degli armamenti e luoghi, parla, anche, di scienze e medicina dell’epoca, architettura, storia dell’arte, ricette culinarie. Scopriremo così abitudini e gusti, le origini di ciò che ci è giunto in eredità e cosa più triste sarà l’impatto con la crudeltà umana unita alla sete di potere che va oltre qualunque pensiero logico. Siamo abituati alle nefaste notizie d’ogni giorno, ai necrologi, alle barbarie più turpi, ma ciò che sconforta è leggere che le stesse atrocità essendo state perpetrate in passato quando la cultura era di pochi, continua a essere emulata anche oggi. In più riprese, Oriana dice, quando entra in prima persona nel personaggio familiare più crudo, avrei voluto non essere nata. Nel settecento vigevano leggi assurde e oppressive, l’Italia era una nazione ambita dall’Austria, dalla Francia e ne subì i vari governi, le varie occupazioni; ma dominava anche il potere della Chiesa feroce come un aguzzino spietato e corrotto.
   Tornando al titolo del libro, Caterina è l’arcavola trasgressiva che nel lontano settecento va al mercato con un cappello pieno di ciliegie per farsi riconoscere da Carlo, prossimo coniuge; Caterina sfida quell’epoca in cui le donne popolane non potevano indossare copricapi, ma lei ha nelle sue vene il sangue eretico di Ildebranda che fu martirizzata per aver consumato un cosciotto d’agnello durante la Quaresima. Caterina non ha timore delle spietate leggi dell’epoca e al mercato ci va anche per smerciare “tubi di decenza”, mutande femminili copiate da quelle della Regina di Francia. Nel settecento alla donna non era concessa nessuna frivolezza, trine, pizzi, nastri, fiocchi e la donna non doveva saper leggere e scrivere, meno sapeva meglio era, dicevano i più. Caterina, desiderosa di istruzione, sposa Carlo anche perché sa leggere e possiede alcuni libri importanti. Caterina detesta Napoleone e combatte per i suoi ideali, impara a leggere e a scrivere velocemente e vive un matrimonio d’amore che, se inizialmente nasce come un incontro voluto, dopo diverrà un’unione ricca di sentimento che continuerà fino alla fine dei giorni fra mille peripezie.
   Carlo fa il contadino, per meglio dire è un esperto di viticultura che avrebbe dovuto trasferirsi in Virginia per portare la sue conoscenze vinicole: all’epoca il vino toscano era già rinomato e lui riceve un’importante offerta di lavoro, ma per una casualità, che a leggerla ora parrebbe una sciocchezza, ritorna alla sua terra toscana. Oriana dice che se il suo arcavolo Carlo si fosse trasferito negli Stati Uniti, avrebbe sposato un’altra donna e lei non sarebbe nata.
   Il filo conduttore del romanzo è la cassapanca che di generazione, in generazione giunge a Oriana, cassapanca che all’interno contiene tanti pezzetti di storia sulla quale lei indagherà: consulterà archivi, si recherà in America, in Inghilterra e nelle ricerche riceverà l’aiuto dovuto; attraverso il baule, custode di frammenti di storia, Oriana potrà ricostruire la storia che le appartiene.
   Dicono che con i cromosomi ereditiamo anche i geni caratteriali ed è così, sappiamo quanto Oriana sia stata in vita una donna combattiva, amante della verità e della giustizia, una donna che sovvertiva le regole, ebbene la famiglia Fallaci era anch’essa combattiva e quasi tutti gli appartenenti portavano avanti i loro ideali a costo della vita.
   Questa non è una saga come tante e si spiega la corposità del libro che partendo da Caterina, nel lontano 1750, narra le vicende degli antenati ribelli succedutisi nell’arco di due secoli. Francesco Launaro che si ribella sgozzando venti algerini per vendicare il padre rapito vent’anni prima da pirati barbareschi: al tempo vigeva la spietata legge del mare e lui per questo scopo combatterà con il fuoco in corpo divenendo un abilissimo marinaio. Le barche erano a vela e la navigazione, quando sopraggiungeva una tempesta, era affidata alla perizia e alla forza umana.  Francesco conoscerà una bellissima antenata di Oriana, Montserrat, nata da uno stupro perpetrato da un nobile che sposa segretamente la vittima dell’abuso ma non vive mai con lei, essendo una cameriera. Il duca Grimaldi, questi era il nobile, pur occupandosi economicamente della figlia non vorrà mai conoscerla fino alla fine dei suoi giorni e quando la madre di Montserrat muore per il “mal dolent”, lei parte alla volta di Genova per conoscere il padre; il tentativo fallisce e lei s’imbarca a Livorno, dove incontra Francesco Launaro dalla bellezza intrigante, i due si sposeranno, nonostante i vent’anni di differenza, e la loro vita sarà costellata da gioie e anche da dolori che porteranno alla pazzia Montserrat.
   Giovanni e Teresa sono anch’essi arcavoli che si ribellano vivendo una notte clandestina d’amore dalla quale nascerà Giobatta che si ribella imparando a leggere e a scrivere, ma non solo diverrà uno scultore abile nelle incisioni, uno scalpellino come pochi. Giovanni è un antenato estremamente povero,per cui  conosceremo la cruda miseria del periodo, quella miseria che lo porterà ad arruolarsi nelle truppe napoleoniche e combatterà senza un addestramento; sofferenze e dolori lo tempreranno e come lui anche altri del periodo combattevano senza competenza, vestiti inizialmente dei loro stracci. Giobatta, bellissimo ragazzo, figlio di Giovanni, s’innamorerà di una ragazza goffa più grande di lui, entrambi parteciperanno alle rivolte popolari, ribelli anch’essi, condividono ideali ed esploderà l’amore che li vedrà sposi, ma la loro storia sarà molto travagliata e avrà un finale tragico.
   La saga si conclude con la storia di Anastasìa che non ha un certificato di nascita e non avrà neanche quello della sua morte suicida all’età di 40 anni, una donna bellissima e combattiva, una maliarda dalle intense avventure fra Italia e America dove giunge dopo aver affidato alla ruota il frutto del suo amore illegittimo: una bimba, Giacoma nonna di Oriana. Giacoma, il cui padre non se ne fa menzione essendo un politico troppo in vista, Giacoma dall’aspetto sgraziato, per un’atroce casualità, perderà un occhio che ne accentuerà la bruttezza.
   Il mal dolent era nei cromosomi e di generazione in generazione giunge anche ad Oriana che sapendo di dover morire, affida il suo manoscritto al nipote che ne curerà la pubblicazione.
    Ci sarebbe ancora tanto da scrivere su questo romanzo che meriterebbe una seconda lettura, infatti Oriana a più riprese si rivolge al lettore dicendo: “Ti ricordi?” e interviene sintetizzando i passaggi precedenti per rinfrescare la memoria; è come se in alcuni punti la narrazione assumesse un tono colloquiale, pur conservando la bellezza espositiva pregna di passione, frutto del grande talento di una Donna, contestata e tanto amata, una giornalista e scrittrice di grande Maestria.

















lunedì 5 ottobre 2015

Sorriso benefico

   Risultati immagini per sorriso di un bambino

   I drammi umani si tingono di sangue e di dolore per le incapacità dell'uomo, per le sue disattenzioni e per le sue nefandezze. 
   La nostra quotidianità corre con il dolore e quand'anche non ci appartenesse direttamente, sarebbe comunque un dolore che diviene nostro e che ci fa riflettere, e ci spegne quella normalità che è meravigliosa quando gli equilibri coesistono. 
   "Ciò che non distrugge, fortifica", ha detto un Grande Pensatore, e in effetti è così: dopo si è temprati a qualunque avvenimento e si ha la capacità di combattere per restare a galla nel mondo avverso dominato dai malfattori che hanno sporcato la bellezza della normalità. 
   Ma chi sa ora ne sa di più, ed è in quel di più che riponiamo le speranze. Occorreranno anni su anni per rimediare, comunque sia se ne parla, si cerca l'antidoto, la terapia d'urto, si cerca la via per un domani migliore.
  La vita attraversa cicli: la storia ci racconta e questa storia che lasceremo ai posteri non è da meno di altre pagine di storia che non avremmo voluto leggere. 
   Il sorriso innocente di un bambino vale milioni di incoraggiamenti che danno forza per scrivere pagine di vita migliore.

lunedì 28 settembre 2015

Alla ricerca della verità

   


   Non era, poi, assolutamente improbabile; forse avrebbe dovuto cercare a lungo, andando allo sbaraglio, e del resto non aveva nulla da perdere, si disse. Poteva farlo, il tempo libero l'avrebbe dedicato a quello scopo. Era pur vero che erano trascorsi vari anni: il tempo, si sa, cambia le situazioni. Ma lei voleva tentare, era come una sfida con se stessa, giusto per avere quella risposta che le era mancata.
   Gloria si mise, così, alla ricerca; tornò nel luogo dei suoi ricordi e si accorse che quel posto era solo leggermente mutato: l'edilizia l'aveva stravolto parzialmente, mentre all'epoca del suo vissuto gli spazi erano più ampi, meno parcheggi e meno stradine asfaltate che conducevano alle nuove costruzioni. Faceva fatica a scrutare la gente: sperava di trovare volti noti, i volti della sua memoria. Quella speranza risultò vana: il tempo muta le persone e le fisionomie si alterano, quindi lei cosa si auspicava? Tornò alla sua realtà con lieve rammarico: il primo tentativo era rimasto disilluso, ma alla fin fine sapeva che non sarebbe stato facile. Non si scoraggiò e non demordette: avrebbe continuato quella ricognizione, nel fine settimana non avrebbe fatto altro.
   Cominciò con il frequentare assiduamente un bar della zona centrale, in quel luogo di passaggio il gestore, o chi per lui, avrebbe dovuto conoscere quasi tutti gli abitanti, in special modo quando il borgo è a misura contenuta. Ormai si era instaurato un certo rapporto confidenziale, sembrava quasi che la proprietaria del bar l'attendesse per intavolare una conversazione amichevole all'insegna del garbato umorismo. Battute ironiche buttate lì per caso, amene constatazioni sugli accadimenti della vita, entrambe le donne finirono, nei momenti di pausa, per appartarsi al tavolino d'angolo e sorridere amabilmente. Evelina, la curatrice del bar, dal comportamento spensierato e sereno, un pomeriggio stupì Gloria quando le confidò di suo marito, giocatore incallito. Le carte avevano scavato un abisso fra loro, solo litigi e patimenti che avevano fatto franare la loro unione, il matrimonio sopravviveva per le promesse di un cambiamento. Lui si giocava tutto: pian piano le aveva dilapidato ogni bene, era rimasto solo il bar e lei temeva che da un giorno all'altro le togliessero anche quello. Malediceva il giorno in cui si era innamorata di lui, era come un maleficio che ancora la soggiogava, la sola voce persuasiva e sdolcinata le faceva credere che tutto sarebbe cambiato, non sapeva come liberarsi di lui. La sua vita era una recita, una farsa che continuava a mettere in scena per non addolorare i genitori che l'avevano messa in guardia su di lui, si diceva in paese che corresse appresso ai soldi e che provasse interesse per le ragazze ricche. Gloria seppe dalla donna che il marito si faceva vedere al bar solo il mercoledì, giorno di riposo dai sollazzi ricreativi, allora contravvenendo ai suoi principi lavorativi, chiese un giorno di permesso: la curiosità era tanta, doveva conoscere il giocatore d'azzardo.
   Mentre era in macchina per recarsi a quel borgo, distante una cinquantina di chilometri dalla sua città, le tornarono alla mente vecchi ricordi e si rivide giovane e innamorata del suo bel Tommy, un ragazzo che la travolse con il suo forte sentimento. Vissero una storia intensa, lui la circondava di premure e di affetto smisurato: nonostante la distanza che intercorreva tra loro, lui lavorava in un'altra regione, trovava il modo di essere presente ogni fine settimana. Molto spesso lui la conduceva nel suo paese d'origine e le mostrava i vicoli della sua infanzia, i luoghi che l'avevano visto crescere e che, assieme alla famiglia, aveva dovuto abbandonare per esigenza di lavoro, così diceva; in varie occasioni le aveva presentato anche degli amici. Il loro amore crebbe e facevano progetti di matrimonio, poi, Gloria notò una certa freddezza, non seppe imputarla a una qualunque ragione, tutto prese una svolta diversa quando lei dichiarò che per costruire qualcosa nella vita bisognava guadagnarselo con sacrificio: lei non viveva di rendita. Così di punto in bianco senza una spiegazione lui scomparve dalla scena della sua vita e lei non fece nulla per cercarlo, l'orgoglio ferito la fece desistere, ma a distanza di tempo ebbe l'impulso d'indagare. Non seppe perché le fosse tornato tutto in mente, come quei semi che germinano all'improvviso, ora aveva bisogno di risposte e sentiva che le avrebbe trovate in quel bar: forse il marito di Gloria conosceva il suo Tommy, anche se non viveva più lì, e lei, dal canto suo, non poteva cercarlo da nessun'altra parte in quanto lui non aveva fissa dimora lavorativa.
    Parcheggiò l'auto e, sbirciando il locale, rimase di stucco: l'uomo che parlava animatamente con Evelina era lui, il Tommy dei suoi ricordi, solo leggermente invecchiato, ma era pur sempre lui. Che carogna, ora comprendeva molte cose. Scappò come una ladra: non voleva complicazioni, e si disse che in fin dei conti era stato un bene per lei non possedere nulla.
   Il cielo le sembrò più terso, la nuvola che sembrava delinearsi all'orizzonte era scomparsa ed anche la sua anima ora era sgombra da nubi: aveva ricevuto quella risposta mancante, ma al tempo stesso si sentiva addolorata per la sua nuova amica. L'avrebbe aiutata, le avrebbe parlato e raccontato: questa volta non avrebbe lasciato nulla in sospeso.






sabato 19 settembre 2015

Macchinazione (parte quattordicesima)

                       

   Nicola cominciò a spiare l'orfanotrofio, dopo averlo individuato finì per appostarsi e cogliere i momenti di quelle uscite dei bambini che vivevano lì; non sapeva perché lo facesse e man mano che passavano i giorni, giunse a pensare che se lui avesse adottato uno qualunque di quei bambini sarebbe stato meno solo, del resto avrebbe soddisfatto l'inesaudito desiderio d'avere un figlio biologico. Ma per prima cosa doveva rivedere Fiorenza, doveva chiederle scusa, avrebbe trovato il modo di farle comprendere che lui non era una bestia e che se avesse acconsentito lui l'avrebbe sposata, le avrebbe dato una casa dignitosa, e con l'adozione la famiglia sarebbe stata perfetta.
   Un giorno tentò il tutto per tutto, doveva entrare nelle grazie delle suore e dopo essersi fatto ricevere dalla Madre Superiora, si offrì come volontario tuttofare, lavoretti sia idraulici che di altro genere: un grosso stabile necessita all'emergenza di qualche manutenzione straordinaria. Si accordarono per il pomeriggio inoltrato, momento in cui Nicola terminava il suo lavoro e ogni giorno si recava all'orfanotrofio per rendersi utile, lo faceva con gentilezza e disponibilità.
   Oramai era diventato un membro di quella comunità e poté fare quelle domande alle quali teneva; seppe così che Fiorenza era morta di parto e che il bambino viveva presso di loro in attesa di un'adozione.
   "Oh, Madre, che dispiacere! Ho conosciuto la ragazza quando era a casa del sindaco. Ma il padre non potrebbe prenderlo con sé?"
   "Impossibile," rispose la Madre Superiora "la ragazza non sapeva neanche di essere incinta quando è venuta qui. Lei non aveva una crescita intellettiva, sicuramente il lui misterioso si approfittò di lei."
   Oramai era diventato un chiodo fisso, doveva conoscere il bambino. Maschio, pensò, tanto meglio l'avrebbe aiutato nel lavoro, così come faceva suo padre anche lui si sarebbe comportato allo stesso modo, intransigente e severo, una formazione richiede un comportamento rigoroso, si disse. Per cui non avrebbe avuto remore di nessun tipo, del resto se le suore avessero acconsentito offriva al bambino un tetto. Modesto, ma pur sempre un tetto che era sempre meglio del collegio lugubre, dove vigeva una disciplina carceraria ben diversa da quella che avrebbe impartito lui, in cambio il bambino avrebbe dovuto contribuire con il lavoro e lo spazio domestico sarebbe stato tutto suo e un giorno lo avrebbe ereditato assieme al laboratorio e alla professione che gli avrebbe insegnato.    
   E lo conobbe: se lo fece indicare. Appena lo vide comprese che era suo figlio, non c'erano dubbi, stessi occhi scuri, capelli ricci e quel modo irriverente di porsi, quel comportamento misto a tanta compiacenza che serviva in più occasioni. Gli sorrise e gli porse un piccolo meccano, una scatoletta contenente barrette di ferro, viti e bulloni, era un residuato di vecchi pezzi che accantonava per avere una scorta di materiale utile per il suo lavoro.
   "Cos'è?" chiese Vittorio guardando con velata diffidenza. Piccolo ma scaltro, proprio il tipo che piaceva a lui. Buon sangue non mente, pensò.
   "E' un gioco per i maschietti intelligenti come te. Potrai costruirti un modellino o ne farai quello che vorrai."
   "Grazie, signore! Ma perché proprio a me?"
   "Mi ricordi me da piccolo, alla ricerca di giochi diversi."
   Cominciò così la frequentazione del bambino e dello stagnino, la Madre Superiora  convenne fra sé che era giunta l'ora di far firmare quelle carte a Nicola: Vittorio sarebbe divenuto suo figlio.

(continua)

giovedì 10 settembre 2015

Macchinazione (parte tredicesima)

   

   Quando la moglie di Nicola morì, nonostante tutto, lui si sentì solo: inizialmente aveva sposato Caterina per amore, era stato il percorso matrimoniale a fargli scadere dal cuore la donna e lui sapeva il perché. L'incapacità di dargli un figlio e poi la sua freddezza, a letto si negava e il più delle volte era costretto a prenderla con la forza: un uomo ha le sue esigenze, le diceva, e i doveri coniugali andavano compiuti. Col tempo Caterina divenne sempre più distante, al tutto si aggiungeva il fatto che lui le rinfacciasse la sterilità.
   "Non sei stata capace neanche di farmi un figlio, non vali niente come moglie. Un giorno o l'altro me lo farò fare dalla prima che incontro." urlava.
   Lei non rispondeva più, abbassava il capo e sgobbava, lavorava anche saltuariamente nei campi come stagionale e desiderava tanto un'altra vita; un uomo amorevole, romantico, curato. Nicola tornava a casa sporco e si lavava sommariamente, le unghie erano rigate di sporcizia che nel tempo si era solidificata e poi puzzava, quanto puzzava! Quando si coricava accanto a lei, ne avvertiva il tanfo e il disgusto le faceva rivoltare lo stomaco. Ma non diceva nulla, si voltava dall'altra parte e fingeva di dormire, tranne le volte in cui lui la prendeva con la forza e lei inerte mentalmente pregava che finisse subito e accadeva infatti che il rapporto durasse una manciata di minuti, buon per lei, poi Nicola crollava nel suo sonno e lei si alzava, si ripuliva e tornava a letto aspettando di riaddormentarsi con la morte nel cuore. Ai campi vi erano altre donne sposate che si lamentavano del loro matrimonio: all'inizio entusiasmo, amore, poi doveri, solo doveri e attenzioni zero, meno che mai romanticherie che ogni donna vorrebbe per sempre. Allora si convinse che non avrebbe dovuto sposarsi, perché tanto il matrimonio è una prigione senza via d'uscita e si augurava la morte che le fece un regalo quando contrasse il tifo, dopo aver mangiato della verdura raccolta dalla terra e non lavata.
   "Sono contenta, sai,"disse al marito febbricitante nel suo letto di morte "sono contenta perché la mia vita con te è stata un supplizio."
   Nicola si mise a riflettere su quelle parole e non trovò il motivo di tanto acredine, giunse alla convinzione che la sterilità l'aveva resa incapace di connettere. Lui era stato un marito fedele, a parte quell'unica volta che aveva violentato la minorata mentale; era stato un gran lavoratore: non le faceva mancare nulla, lei andava nei campi, ma non ce n'era bisogno e poi le aveva dato una casa confortevole, piccola ma con gli spazi giusti e ogni anno la portava alla festa patronale, persino le regalava qualche chincaglieria d'esposizione. Ah, che ingrate le donne, pensò!
   I giorni passavano e Caterina gli mancava, si sentiva solo, poi si ricordò della ragazza che aveva preso con la forza e tornò a casa della moglie del sindaco. Chiese di Fiorenza e gli fu detto che da tempo aveva lasciato la casa per stabilirsi presso l'orfanotrofio più vicino che cercava una sguattera a tempo pieno; la signora non se l'era sentita di rifiutare e aveva acconsentito: le suore non se la passavano bene e vivevano della solidarietà, Fiorenza non sarebbe costata nulla.
   Nicola era da un po' che viveva del ricordo di quella ragazza, quasi gli rimordeva la coscienza di averla stuprata: lei non aveva neanche capito, era quasi incapace d'intendere e lui ne aveva approfittato, era come se sua moglie dall'aldilà gli avesse acceso nel cuore una briciola d'umanità!

(continua)

domenica 6 settembre 2015

Rientro a casa

   


   Sono nuovamente qui con immensa gioia, le vacanze per me sono terminate, si sono succeduti avvenimenti lieti, qualche intoppo salute, per fortuna superato, condivisioni con gli amici di sempre: accade quando ci si conosce da tempo e si diviene una famiglia. Caldo, tanto caldo che ancora non dà tregua e anche bellissime giornate al mare in un clima spensierato che solo la natura può offrire: è come se si fosse lontani dal mondo con le sue tristi realtà.
   E la dimensione tempo pareva essersi allontanata, bello è uscire fuori dai canoni della normale quotidianità, regalarsi momenti di relax mentale e parlare, comunicare, confrontarsi, partecipare, essere una comunità che interagisce, certamente non tralasciando le problematiche che ci attanagliano e guardarle attraverso uno schermo che in quel momento sembrava renderci spettatori.
   Si partecipa agli eventi vacanzieri, una sorta di programma a scelta il tutto innaffiato da passeggiate sul lungomare, ascoltare le orchestrine di turno e osservare la merce multicolore esposta nei vari box che ravvivano il viale di passaggio.
   E la domenica, partecipare alla celebrazione eucaristica all'aperto, al fresco dei pini in una condivisione totale, in uno slancio sincero senza fronzoli o atteggiamenti tipici dei luoghi di culto al coperto, quella condivisione concessa anche ai fedeli amici dell'uomo.
   Poi arrivano le partenze, i saluti e l'arrivederci, a Dio piacendo, all'anno prossimo.
   Giunge il rientro e si torna alla vita di sempre, a quella che in definitiva vive nel nostro cuore per gli affetti, per i luoghi che ci hanno visto crescere: sono le nostre radici. E pur notando difetti del luogo che ci ospita, è il posto del cuore, dei nostalgici ricordi, è la nostra terra e il richiamo è sempre forte!  


(Cari amici con calma passerò a leggervi, il mio caro pc bloccato finalmente è dal mio tecnico di fiducia: dove mi trovavo sono incappata in un incompetente che ha peggiorato il tutto e per non sbagliare ancora non mi sono cimentata nell'acquisto di uno nuovo, mi avrebbero rifilato qualcosa di obsoleto. Per scrivere questo comunicato sto adoperando un computer che avevo messo in pensione da un bel po', comunque anche se è una lumachina fa il suo dovere. Un saluto a tutti)

giovedì 16 luglio 2015

Buone vacanze

Pensavo di protrarre e di continuare a pubblicare, ma oggi il pc mi ha salutato: l'ho acceso e ha esalato l'ultimo respiro. Ora è in rianimazione presso un centro assistenza e non so quando sarà pronto. È come se avesse voluto concedersi una pausa in concomitanza del periodo ferie.
Amici vi auguro buone vacanze di vero cuore, continuerò a seguirvi con il mio smartphone dal quale sto lasciando il comunicato.
Un abbraccio globale
Annamaria

venerdì 10 luglio 2015

Macchinazione (parte dodicesima)



          

    Nel nostro DNA riceviamo anche i geni caratteriali, il percorso della vita altera o smussa quei geni e Nicola a sua volta era stato educato al rigore, alla durezza di sentimenti, alla disciplina avulsa da sentimentalismi. Col matrimonio aveva in serbo di trasmettere al futuro figlio quanto aveva ricevuto, una sorta di riscatto dalle sofferenze patite, come se la mancanza d’amore scatenasse altra mancanza: sono gli esempi che formano l’individuo o possono generare in lui un addolcimento che eviti le stesse pene. Caterina non riuscì a dare un figlio a Nicola e lui un giorno per rabbia, che coltivava da tempo, stuprò una domestica che si trovava in una casa di una signora che aveva chiesto l’intervento dello stagnino più conosciuto del paese.

   La giovane lo ricevette con atteggiamento provocatorio, lei non si rendeva conto d’essere oggetto di desiderio: aveva un problema a livello mentale, ora diremmo diversamente abile, per cui non si preoccupava se l’abito era fuori posto e metteva in evidenza le sue grazie. Fiorenza era una bella creatura dall’aspetto provocante, ma con la mente era molto indietro rispetto alla sua crescita fisica: era rimasta una bambina ubbidiente e smaliziata. Prestava servizio alla signora più in vista del borgo, era la moglie del sindaco che l’accolse dopo che i genitori di lei erano morti per malattia, un tifo li aveva stroncati a breve distanza l’uno dall’altro. La tal signora si dispiaceva del ritardo mentale della giovane ma non sapeva che fare e oltre a darle ospitalità e un lavoro, capitava che di tanto le affidasse, in sua assenza, incarichi poco impegnativi: accogliere l’idraulico per una riparazione era cosa che, secondo lei, la ragazza poteva adempiere.
   Nicola aveva terminato di riparare il tubo della vasca in pietra che era in giardino, faceva caldo, molto caldo, quell’estate la calura era insopportabile. Egli osservò la ragazza, la luce fosforescente che filtrava dalle foglie della magnolia illuminavano il corpo di Fiorenza, lo esaltavano, i seni turgidi premevano attraverso il misero abitino in cotone che con l’umidità s’era appiccicato addosso, s’intravedeva persino la mutandina; non ce la fece più e chiese un bicchier d’acqua, nel mentre la seguì. La prese di spalle e la strinse forte, in casa non c’era nessuno, e cominciò a baciarla sul collo e poi scese là, dove era cominciato il suo oggetto del desiderio. Lei non capiva credeva che lui volesse dimostrarle affetto: nel suo ricordo c’era ancora il papà tanto bravo e amorevole, il caro padre che aveva attenzioni d’affetto e di premura come un buon padre sa fare. Quel papà non era scomparso dai suoi ricordi e la mente bambina era ancora ferma a quei dolci momenti familiari, fatti di risate, di abbracci, di condivisione, di attenzioni. L’abbraccio si fece più intenso, animalesco e lui le strappò l’abitino, la mutandina, lei non capiva: il suo papà non la spogliava con forza, il suo papà era tenero e gentile. Sprazzi di pensieri che non ebbero il tempo di avere una risposta, un dolore lancinante le fece perdere coscienza, la penetrazione violenta e fulminea le causò un dolore insopportabile, mai provato. Nicola scappò, via, e quando Fiorenza si ridestò, non ricordava perché era lì per terra, era rimasta al momento del bicchiere d’acqua che doveva portare al buon stagnino.

(continua)

mercoledì 1 luglio 2015

Macchinazione (parte undicesima)

                      Risultati immagini per sogni di un bambino
  

   Victor adorava leggere e immergersi nelle storie altrui; non era il primo libro che leggeva e aveva cominciato subito a farlo, sin da quando aveva imparato a leggere con dimestichezza. Le suore dell'orfanotrofio erano aride nei rapporti con i bambini ma regalavano sogni attraverso i libri, era un dono momentaneo: a fine lettura dovevano riconsegnarli ed esporre a parole il contenuto della storia e ne discutevano insieme, quelle suore erano delle ottime insegnanti. Ora che viveva una condizione di repressione e semi povertà, in lui crebbe ancor più la smania di leggere: s'isolava dal contesto abitativo, dalla realtà priva di sentimento e soprattutto, nonostante i suoi quasi nove anni, sapeva che, le suore erano state brave in questo, attraverso la lettura avrebbe perfezionato quegli studi che faceva a scuola. Il padre adottivo, per fortuna, gli aveva permesso di continuarne la frequenza e dopo le elementari lo iscrisse anche alle medie. 
   Il bambino per raggiungere la scuola ubicata in un paese vicino era costretto a prendere la corriera e con la stanchezza dei lavori pomeridiani e le levatacce il mattino presto, giungeva all'edificio scolastico ch'era stanco e assonnato e finiva per addormentarsi sul banco. I compiti a casa di conseguenza non li svolgeva in maniera corretta e si barcamenava come poteva, dopo aver rigovernato la cucina dai piatti sporchi della cena: a lui toccavano anche tutti i lavori di casa. Ma quando era nel suo spazio, che per quanto minuscolo era il suo senza intromissioni, prendeva fra le mani il suo libro segreto e si perdeva nella lettura delle avventure del piccolo principe che imparò a guardare le cose della vita attraverso gli occhi del cuore. 
   Più Victor proseguiva nella lettura e più comprese che l’amore era la panacea dei mali di questa vita, lui non riceveva amore perché il padre Nicola non sapeva amare a causa dei vari dispiaceri che gli avevano tolto questa possibilità, rendendolo un uomo arido e privo di cuore. Egli come figlio, nonostante tutto, avrebbe fatto il modo per insegnargli ad amare e l’occasione capitò un giorno in cui Nicola era riverso sul letto febbricitante e delirante.
   “Papà, che ti succede, stai male?” chiese il bambino al rientro da scuola.
   “Va a chiamare il dottore, ma prima devo dirti che sei come ti volevo e che mi somigli. Hai visto, Caterina, che son capace di fare un figlio, sei tu la pianta secca e io ho fatto bene a farmelo fare dalla Giuseppina.” diceva con gli occhi rivolti al cielo.
   Victor non comprendeva, ma uscì subito di casa e fece le stradine di corsa per andare dal dottore del paese, aveva nel cuore la gioia di aver sentito parole quasi d’affetto per lui, in fin dei conti Nicola non era poi così cattivo, pensò, sentiva dentro di sé che il loro rapporto sarebbe stato diverso. Gli avrebbe fatto leggere il suo libro ricco di morale e di buoni insegnamenti e il padre avrebbe ripreso ad amare, a guardare il mondo con gli occhi del cuore; strano, un bambino che faceva riflessioni più grandi di lui e fu questa spiccata meditazione associata a una intelligenza fuori dal comune che l’evoluzione mentale del piccolo, Victor, prese un’altra piega.

(continua)