giovedì 30 marzo 2017

Il pescatore

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   Siamo a metà settembre e ci concediamo un’ulteriore vacanza, un tre giorni in un paesino abbarbicato sul promontorio, in un borgo vetusto, ma singolare, con un porto sottostante lambito da un mare cristallino.
   Ci accompagna nostro figlio Matteo, che nonostante sia un adolescente alle soglie della pubertà,  trova divertimento anche con i suoi genitori, gioendo per questo extra fuori città, alle soglie dalla apertura delle scuole.
   L’albergo, dove alloggiamo, si affaccia proprio sul porticciolo diviso in luogo d’attracco per le diverse barche di pescatori del luogo e anche in spiaggia riservata ai clienti dell’hotel.
   Prendiamo possesso della camera, ci guardiamo intorno, ci piacciono le pareti chiare tinteggiate con effetto spugnatura rosa pesca, colore riportato sulle lampade e sulla biancheria da letto che rende il tutto raffinato, ma rilassante.
   Apro le persiane ed esco sul balconcino che si affaccia sul singolare porto, insenatura di quel luogo turistico, da qualche decennio riscoperto e rivalutato.
   “Mamma,” esordisce Matteo. “C’è anche il frigo bar! Guarda quante lattine di coca, posso aprirne una?”
   “Ma certo tesoro! Ora vieni a guardare il panorama, qui dall’alto è più suggestivo!”
   Mi raggiunge mio marito Giorgio, compagno fedele da più di vent’anni.
   “Vediamo un po’ Loredana? Splendido! mi dice. “Ho scelto bene allora? Questa mini vacanza non programmata, si prospetta niente male!”
   Loro i miei due uomini sono già in boxer da mare e mi sollecitano a cambiarmi.
   “Andate pure, vi raggiungo al più presto. Devo farmi una doccia. Sono accaldata!”
   Giorgio si avvicina e mi bisbiglia nell’orecchio: “Un fuori programma?”
   “Già!” gli sussurro. “Ho dimenticato di passare il rasoio sulle gambe. Faccio in un attimo!”
   Sono sola finalmente! Posso guardare le bellezze paesaggistiche dal piccolo balcone con la ringhiera di ferro battuto a forma semi circolare. Noto in un angolo una poltroncina in vimini, mi ci accomodo e osservo il cielo che si tocca col mare azzurro e con il promontorio, lingua di roccia piantata nelle limpide acque. Scruto con interesse all’orizzonte la collina rigogliosa di natura verdeggiante, che guarda dall’alto il paesino marittimo. Chiudo gli occhi e respiro a pieni polmoni dilatando le narici, affinché lo iodio raggiunga ogni cellula del mio corpo; lo faccio sempre quando sono al mare, compio questo rito sin dalla nascita, perché così sono venuta al mondo: in un’insenatura nascosta della bellissima costa siciliana.
   “Mammina, anche oggi tarda a venire il papà?”
   “Amore, le barche non sono ancora rientrate! Continua a guardare il mare e fra un po’ le vedrai spuntare!”
   Avevo solo cinque anni e vivevo in una graziosa casetta che dava sul mare, solo un modesto marciapiede la separava dalla scogliera del porto del mio paese; quando i pescatori rientravano con le barche, io ero sempre davanti alla finestra col nasino appiccicato sul vetro che si appannava del mio respiro. C’era una particolare intesa fra me e mio padre: lui era per la bimba Loredana un mito e quando scendeva dalla barca salutandomi con un cenno della mano in segno di vittoria, io esultavo:
   “Mamma, il papà anche oggi è stato bravissimo … ha pescato!”
   I miei genitori si conobbero in riva al mare e per entrambi era esploso l’amore in un feeling perfetto; s’incontravano di nascosto fra gli anfratti per non essere scorti da nessuno: sapevano che la loro storia sarebbe stata disapprovata dalla famiglia di mia madre.
   Mamma frequentava il primo anno alla facoltà di lingue, avrebbe voluto fare l’interprete da grande; mentre mio padre aveva continuato lo stesso mestiere di mio nonno, da piccolo accompagnava molto spesso suo padre durante le escursioni di pesca e si era innamorato della vita in mare aperto: il lavoro di pescatore divenne per lui una vera passione!
   “Mario, sai com’è, i miei genitori stanno facendo dei sacrifici per me, mi pagano gli studi e i vari spostamenti dal paese, da noi non ci sono università. Io prima di conoscerti, non pensavo a un legame, c’era solo lo studio nella mia testa, ora ci sei tu e io vorrei stare sempre con te! Poi ci sarebbe un altro problema… il tuo lavoro, i miei per me hanno grandi aspirazioni, perciò amore siamo costretti  a vederci così!”
   “Pamela, va tutto bene per me, purché non mi abbandoni!”
   La storia andò avanti per vari mesi, nessuno si accorse di nulla, fino al giorno in cui la mia mamma non rimase incinta di me e, come Pamela aveva previsto, i miei nonni materni la misero alla porta quando seppero di mio padre.
   “Cosa!”, urlò mio nonno. “Ti faccio studiare per darti un futuro migliore e tu… ti butti nelle braccia di un pescatore! Vuoi passare la tua vita fra la puzza del pesce, fra le incertezze e con un marito di basso livello? I tuoi progetti… i tuoi sogni! L’amore passa, te ne pentirai!”
   Fuggirono via, Mario e Pamela, e vissero inizialmente in una casetta alla periferia del paese, anche i genitori di mio padre disapprovarono la scelta del figlio, secondo loro quella ragazza con la testa alla cultura non sarebbe stata una brava moglie, per cui inizialmente i due innamorati dovettero adattarsi alle ristrettezze economiche.
   Ma loro non se ne curavano: la felicità adombrava tutto il resto.
   Il mattino presto mia madre si recava al porto ad attendere il ritorno del marito e quando vedeva  all’orizzonte far capolino la barca tinteggiata di giallo, sapeva che rientrava il suo uomo: sublime amore; allora dalla costa, lei cominciava a salutarlo con il braccio per aria e si portava la mano alle labbra per soffiargli un bacio simbolico di benvenuto.
   Anche con la gestazione al termine, Pamela non rinunciò all’appuntamento con il mare: non poteva mancare! Quella mattina, quando io decisi di venire al mondo, lei era in attesa sulla piatta scogliera; avvertì  delle intense contrazioni che la obbligarono a sedersi per terra, mentre incrociava le braccia sul ventre con sofferenza.
   “Che ti succede amore?” disse Mario dopo aver ancorato la barca.
   “Portami nel nostro rifugio, devo sdraiarmi!”
   Il rifugio era un’accogliente grotta un po’ più avanti, era il luogo dove si erano amati lontano da occhi indiscreti, era il limbo felice.
   “Pamela, andiamo in ospedale, credo che sia giunto il momento!”
   “No!”, esclamò lei. “Non ce la farò, sta per nascere, devi aiutarmi tu!”
   Il parto fu rapido, mi ha raccontato in seguito mia madre, e il mio coraggioso papà prese in braccio le sue due donne e le condusse in ospedale per il controllo medico.
   Con la mia nascita i due sposi si sentirono ancora più uniti, l’amore ardeva come un fuoco inestinguibile: erano perfetti insieme. Mio padre era un giovane che se il destino lo avesse collocato da un’altra parte, con le sue doti naturali di bellezza e d’intelligenza, avrebbe avuto un avvenire diverso. Mia madre lo denominò “l’intellettuale dei mari”, non ci furono incomprensioni fra loro, il rapporto non si arenò per mancanza di argomenti, come presagiva il mio nonno materno: Mario era bello, amorevole, dalla parlantina forbita e abile pescatore.
   Il lavoro andava bene, il nostro mare pescoso permette discreti guadagni e col tempo mio padre aveva in progetto di acquistare un peschereccio, sarebbero andati i suoi futuri marinai in mare.
   Avevo compiuto cinque anni, quando ci trasferimmo in quella casa che si affacciava sul porto; era una graziosa villetta a due piani e se non ero all’asilo, mi appostavo dietro ai vetri ad attendere il mio papà, il mio bellissimo padre, al quale correvo poi incontro festante per saltagli al collo e riempirlo di baci tempestandolo di domande.
   La vita scorreva felicemente, Pamela mai si lamentò di aver rinunciato ai suoi sogni: il suo universo eravamo noi! Ogni nuovo giorno rafforzava nei miei genitori  quel feeling perfetto che li univa indissolubilmente. 
   Quella memorabile mattina … quella mattina in cui disegnai tanti ghirigori sulla patina di vapore del mio respiro, dopo l’attesa prolungata vidi giungere le barche prive di equipaggio.
   “Mamma è tutto triste lì fuori, ci sono soltanto le barche senza i papà!”
   “Andiamo a vedere, si saranno nascosti per farci uno scherzo!”
   Sono trascorsi circa quarant’anni, ma ricordo ancora l’espressione angosciata che colsi sul volto di mia madre: mi colpì profondamente, mai prima di allora quel viso aveva espresso dolore.
   Il mare restituì i pescatori per un ultimo saluto: durante la notte un’improvvisa mareggiata aveva soppresso quelle vite. L’imbarcazione gialla non fece più ritorno e di mio padre si persero le tracce, tracce di un’attesa mai cancellata.   
   Riemergo dalle rievocazioni del mio passato che mi è stato raccontato e che ora in questo luogo mi suggestiona, e mi chiedo perché? Ho appena trascorso un’altra vacanza al mare, ogni estate della mia vita la passo esclusivamente al mare: non potrei diversamente! Cosa c’è di diverso qui? Il richiamo è forte, anche se mi attendono e devo affrettarmi, giro il capo per osservare con più attenzione le barche ormeggiate e fra le tante fa capolino una colorata di giallo … che strana coincidenza! Mio padre all’epoca dei fatti non ebbe una sepoltura: il suo corpo non fu ritrovato. Scendo dabbasso e percorro il porticciolo, noto un anziano pescatore intento a lucidare la sua barca color delle limonaie, ha lo sguardo buono ma assente, mi accosto e lui mi sorride.
   “Davvero un bel colore!” esordisco
   “Non ho mai voluto cambiarlo.” mi dice “Non so perché, è come se fosse il colore del mio passato che non ho più ritrovato.”
   Nasce così nel mio animo la speranza… speranza di dare pace al mio cuore e a quello di Pamela che ancora attende il suo Mario con caparbia ostinazione.


venerdì 24 marzo 2017

Le scarpette rosse

     Anche in un momento in forte tensione, una lettura tenera addolcisce il cuore; questa breve storiella fa parte di un ricordo del passato.            




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   Erano lì belle, lucenti, uniche. Spiccavano in quella vetrina: fra tante anonime e scure, quelle scarpette sembravano uscite da un libro di fiabe.
   Elisabeth non staccava lo sguardo: le desiderava, da quando le aveva viste in quello scialbo negozio di calzature, ne era rimasta conquistata, doveva possederle per calzarle… per volare alto.
   Passava ogni giorno dinanzi a quel punto vendita, ma tirava sempre dritto; ogni mattina Elisabeth percorreva lo stesso tratto di strada prima di giungere a scuola: era un percorso obbligato, non vi erano altre vie.   Le scarpette di vernice rossa avevano un che di magico,  agli occhi di Elisabeth sembravano fosforescenti: la tonalità cambiava a seconda della luce. Il modello semplice, di quelle piccole calzature da bambola come la sua, era valorizzato da un cinturino fermato da un bottoncino.
   Viveva una vita modesta Elisabeth, ma essendo molto fantasiosa, era attratta, nonostante avesse solo otto anni, dai begli abiti con i suoi accessori. Quel paio di scarpe rappresentava per lei la conquista del benessere che avrebbe voluto: alla sua età immaginava che giungesse una fata buona a trasformare la sua casa in una più confortevole e a donare al suo papà un lavoro meno faticoso e più redditizio. 
   Le scarpette del desiderio erano sempre allo stesso posto; il negoziante le lucidava, le poneva in un’altra angolazione, ma esse rosse e patinate non lasciavano quella vetrina. Il papà di Elisabeth aveva intuito il desiderio di sua figlia. Si era accorto, quando la portava a passeggio la domenica mattina, come guardasse quella vetrina e gliel’aveva anche chiesto. Gli occhioni malinconici di Elisabeth si erano illuminati e lei aveva indicato le bellissime calzature; poi si era fatta coraggio, sussurrando: “Me le compri?”
   Da quel giorno, in poi, tutte le sere, quando si incontravano a cena, lei guardava suo padre e lo supplicava con lo sguardo; tacitamente continuava a inviargli il messaggio.
   Le scarpette rosse erano sempre in quella vetrina dell’anonimo negozio di quartiere, nessuno le comprava; sembrava stessero aspettando lei, solo lei, la bimba fantasiosa che quando desiderava non  comprendeva i ‘se’ ed i ‘ma’, giunse anche a ripetere a voce sempre la medesima, concisa frase: “Me le compri?”
   Il papà rigido incominciò a crollare. Un pomeriggio fiero, prese sua figlia per mano e la condusse dinanzi alla vetrina del desiderio.
   “Entriamo!” disse.
   Il negoziante prese le lucenti scarpette e le fece provare a Elisabeth che, guardandosi allo specchio, esclamò: “Non mi stanno bene, non mi piacciono più!”
   L’oggetto del desiderio, col possesso che stava per compiersi, smetteva di esercitare il suo fascino, lasciando nello sconcerto il papà.
   In futuro Elisabeth per quel padre fu sempre colei che cavalcava la volubilità.




venerdì 17 marzo 2017

L'autobus

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      Sono in ritardo… come sempre.
  Scendo le scale velocemente, mi separano quattro marciapiedi dalla fermata dell’autobus, sempre lo stesso che da vent’anni mi accompagna al lavoro.
   Il tratto è lungo e ogni giorno il vecchio autobus percorre svariati Km, in discesa fra le colline della Bassa Brianza, luogo incantevole della Lombardia, per raggiungere  la parte pianeggiante dove sorgono diverse fabbriche che attendono noi lavoratori quotidiani.
   Io presto servizio presso un mobilificio e mi occupo del settore vendite con professionalità e impegno tali, da meritarmi recentemente la nomina a responsabile della nuova struttura più ampia, fornita anche di arredamenti di tendenza.  
   E’ una mattina come tante e si annuncia simile alle altre. Sono fuori dal portone di casa, il sole splende in questa primavera inoltrata. Inforco gli occhiali da sole: la luce mi abbaglia, mi guardo intorno e non scorgo nessuno, come sempre. A quest’ora del mattino la cittadina tace e io mi appresto a cominciare una nuova giornata, ancora una volta con l’amaro in bocca; l’amaro della solitudine, l’amaro della sofferenza che vive in me da quel giorno maledetto in cui mia figlia, aprendo la porta di casa, mi urlò: “A non più rivederci, mamma! Tu per me sei morta!”
   Debora, amore mio, io continuo a vivere perché la speranza di rivederti mi aiuta a vivere e quando tornerai, dovrai trovarmi! E io fingerò che non sia successo nulla e ti accoglierò come se fossi uscita da qualche ora.
   Siamo in tanti alla fermata, ci conosciamo un po’ tutti.
   “Ehilà Silvana, come la va, oggi?” mi domanda sorridendomi la Cesarina.
   “Va di un bene. Sono la persona più felice di questa terra!”
  “Ma dai Silvana, vedrai che Debora ritorna.”  mi dice comprensiva. “Le passerà, la mamma è sempre la mamma!”
   Ci spingiamo con delicatezza, mentre percorriamo lo stretto corridoio alla ricerca del posto a sedere; ne trovo uno libero e mi ci accomodo. Apro la borsa per riporre i miei occhiali da sole, ma poi ci ripenso: la luce abbacinante giunge sino alla mia postazione; li inforco nuovamente e appoggio la testa sul sedile, mentre il movimento lento del pullman mi induce a pensare.
   Torno mentalmente a quella sera… eravamo felici Debora e io: non ci mancava nulla. Una bella casa e un lavoro dignitoso che avevo sin dall’inizio del mio matrimonio poi vanificato, quando quel traditore di mio marito decise di trasferirsi in un’altra città con una biondina ossigenata.
   Era venuta su bene lo stesso Debora che, dopo aver preso il diploma, aveva trovato lavoro in un centro commerciale. La sera quando ci ritrovavamo, alla fine di una giornata di lavoro, era sempre una festa: sembravamo due coetanee amiche. Non c’erano segreti fra noi, io conoscevo le sue storie d’amore e cercavo di metterla in guardia, dopo l’esperienza negativa avuta con suo padre. Tutto era perfetto… sino a quella sera.
   “Silvana sono tornata, dove sei?”
   “Sono in bagno, tesoro!” le piaceva chiamarmi per nome, lo faceva molto spesso, soprattutto nei momenti di massima gioia.
   “Allora Debora che succede? Sei tutta elettrizzata!”
   “Mamma, prepara una cena con i fiocchi, stasera conoscerai il mio fidanzato!”
   “Fidanzato! Che parolona, sarà come gli altri ragazzi, tu hai solo diciannove anni, non farai sul serio?”
   “Lui è diverso, quando lo conoscerai, capirai! Ci sposiamo, mamma ci sposiamo!”
   Ero preoccupata, ma finsi di non esserlo. Approntai una cena speciale, me la cavavo bene in cucina; dopo misi su un abitino decente, mi guardai allo specchio e l’immagine che rifletteva non era niente male; potevo essere fiera di me stessa: all’età di quarant'anni anni avevo un’aria molto giovanile, in tanti credevano fossi la sorella di Debora.
   Stavo per entrare in soggiorno, quando attraverso la porta a vetri che separava la zona notte, lo vidi!
   ‘No!’ mi dissi. ‘Lui no!’ Io lo conoscevo, alla stessa età di mia figlia c’ero cascata anch’io: mi ero innamorata di quell’infame torbido rubacuori. L’avevo incontrato per strada e mi aveva pedinato, poi entrando in casa avevo sentito squillare il telefono … Che tempismo, era lui!
   “Sei tu quella bella bambina di poco fa?”
   “Come dici, e tu chi sei?”
   “Dai che lo sai! Ti ho vista che mi guardavi.”
   “Come hai fatto ad avere il mio numero di telefono? Lascia stare.” continuai. “Ho capito … hai letto il cognome al citofono.”
   “Che scuola frequenti, che passo a prenderti!”
   Incominciò così la nostra storia, fui affascinata dalla sua eleganza, dalla sua cultura e anche dal suo benessere; ancora un po’ e sarei caduta nelle sue grinfie: egli era un “Pappone”. Un mio caro amico mi mise in guardia e lo affrontò, liberandomi per sempre della sua presenza, e ora lo rivedevo a casa mia con mia figlia, dopo vent’anni non aveva perso il vizio di avvicinare le brave ragazze.
   “Questa volta” pensai “dovrai vedertela con me, parassita!”.
   Entrai nella sala e lui con disinvoltura si alzò e mi venne incontro.
   “Signora è un piacere conoscerla, Debora mi parla spesso di lei e di tutti i sacrifici che ha fatto nella sua vita. Le vuole bene, tanto bene!”
   “Basta con questa commedia!” esordii con rabbia. “Non ti ricordi proprio di me? Non sono poi così vecchia! Ti occupi sempre dello stesso giro d’affari? Brutto porco! Tu mia figlia la lasci stare, lei ti cancella ora! Fuori di qui!”
   “Mamma come ti permetti? Io lo amo, stiamo per sposarci e tu mi distruggi! Hai sbagliato persona.”
   “Mandalo via tesoro.” le dissi accorata. “Per lui sei solo merce.”
   Sentii il tonfo della porta, Debora era uscita assieme a lui. Caddi esausta sul divano e incominciai a piangere singhiozzando, non mi accorsi del tempo che passava. Alzai lo sguardo e vidi che l’orologio segnava la mezzanotte, quando udii il rumore delle chiavi nella toppa. Era lei, Debora, era tornata. Mi guardò di ghiaccio, i suoi occhi trapassarono il mio cuore.
   “Sei ancora innamorata di lui? Mi ha raccontato della vostra storia giovanile, è per questo che hai voluto infangarlo! Me ne vado, mamma, tu per me sei morta!”
   Sento la frenata dell’autobus e mi sveglio da quel torpore, ogni qual volta mi eclisso con la mente, i ricordi prendono il sopravvento.
   Sto per alzarmi, lo fa anche la mia vicina di sedile, giro il capo e la guardo come faccio sempre, per un saluto formale prima di andar via.
   Ci fissiamo a vicenda, non proferiamo parola, poi…
   “Mamma, sei tu? Non sei cambiata, sei sempre la stessa Silvana!”
   




 
  
 




giovedì 9 marzo 2017

Lorenza


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   Si può passare buona parte di una vita nel disinteresse e nell’inedia? Si può trascorrere l’esistenza non muovendo un dito e aspettando che le giornate scorrano sempre uguali?
   Lorenza era nata in una famiglia all’antica, ostile verso il mondo che giudicava gretto e maldicente. Una fanciulla modello negli studi, una figlia perbene e consenziente ai voleri paterni: la sua vita era improntata sull’assoluta tolleranza. Nessuna personalità, il suo stile di vita era un reiterare sempre e solo: “Come vuoi, papà – tu sai sempre tutto – io non ti lascerò mai – fuori c’è solo malvagità!”
   Lorenza era cresciuta, era ormai una giovane donna e nonostante frequentasse l’università, ancora pendeva dalle labbra del padre, figura predominante e dominus incontrastato in quella famiglia. La mamma era nell’ombra, succube e devota sposa che subiva le angherie di un uomo accentratore dal comportamento anormale. Per Lorenza c’era lo studio come svago e null’altro. Lei non conosceva le feste giovanili o le uscite con gli amici, il suo orizzonte terminava tra le pareti domestiche; dopo le lezioni universitarie solo e poi solo la dolce, si fa per dire, casetta. Mai un rimbrotto, una contestazione, un desiderio diverso, la sua era una vita scontata e sempre uguale che scorreva a tre: lei, la madre e il pater familias.
   Terminò il percorso di studi e conseguì la laurea con il massimo dei voti, all’università il suo relatore le prospettò la carriera di ricercatrice.
   “Le farò sapere!” rispose con aria mite e rassegnata che equivaleva a un rifiuto.
   “Tu … con un uomo!” urlò suo padre. “Loro hanno in mente solo una cosa, quella cosa. Le ricerche le farai qui!”
   “Certamente papà, hai ragione tu.” sembrava anestetizzata, un automa programmato.
   Una parente zia, che si recava da loro solo a capodanno per gli auguri del nuovo anno, prese la ragazza in disparte e le disse che c’erano tanti concorsi per il suo titolo di studio. Lorenza passò giorni a guardare quei bandi di concorso che la zia le aveva consegnato, aveva in mente anche di cominciare a prepararsi, ma l’amato padre la scoraggiò: “Anche lì ci sono gli uomini e loro hanno in mente solo quello. Non ti serve lavorare, ci sono io per te!”
   Gli anni passavano e la ragazza non era più tanto giovincella, il fisico da minuto s’era appesantito; il volto dalla pelle luminosa appariva spento e le pieghe d’espressione erano accentuate; s’avviava per i quarantacinque anni e ancora neanche l’ombra di un fidanzato; il desiderio di un lavoro ormai era sepolto in un cassetto chiuso per sempre. La parente unica visitatrice era presa dallo sconforto e a nulla valevano i suoi tentativi, in quella casa si respirava un odore stantio pregno di muffa e tutto aveva un colore grigiastro, come se l'assuefazione delle donne avesse spento ogni cosa.
   Lorenza divenne infermiera giorno e notte per quel padre che si ammalò di un male incurabile, ma neanche la morte del genitore cambiò la situazione e la madre fu, poi, il suo punto di riferimento. La mente di Lorenza era plasmata a quella vita fra le pareti domestiche che si svolgeva sempre piatta, uniforme e scontata: cibo preparato dall’anziana madre e televisione sino a notte fonda di programmi informativi. Quella zia aveva rinunciato da tempo a solleticare l’interesse della nipote alla vita esterna e si rassegnò a malincuore.
   Morì anche la mamma di Lorenza che si chiuse nel suo dolore, sola nella casa-prigione trascorse il suo tempo nella completa inedia davanti a una finestra, mangiando una volta al giorno i pasti preparati dalla comprensiva parente che, pur essendosi arresa al comportamento della nipote, non smise mai di visitarla giornalmente. Il resto della giornata la donna lo trascorreva guardando qualche programma televisivo nell’assoluta indifferenza e, a seconda delle esigenze, si affacciava sul mondo per  assolvere agli obblighi improrogabili( spesso aveva chiesto alla zia di pagarle le bollette o di recarsi in banca, ma la parente tergiversava, trovava scuse pur di farla uscire almeno in quelle rare occasioni.)
   Una vita sprecata, una vita annullata, in nome di chi e di che cosa?
   Aveva cinquant’anni e un giorno insistentemente il campanello di casa suonò a più riprese; Lorenza che guardava dallo spioncino timorosa, questa volta non lo fece e aprì quella porta, come se quello scampanellio non programmato la risvegliasse dal suo torpore.
   “Signora, io la conosco; l’ho scorta sul balcone, abito di fronte. Mi aiuti, mio padre mi violenta da anni, mi tenga con sé!”
   La disperazione che colse in quel volto le penetrò il cuore e stranamente non impedì l'accesso alla sua casa e la fece accomodare.
   “Vieni cara, anche tu vittima, come me. Io sono stata violentata nell’anima e tu nel corpo. Ci aiuteremo a vicenda!”
   Nessuno mai bussò a quella porta, non supponevano che quella strana zitella desse ospitalità e le due donne vissero per qualche tempo lontane dal mondo; anche la vicina di Lorenza non s’accorse e la zia smise di farle visita, quando la nipote espresse il desiderio di voler imparare a cucinare, la zia interpretò quella volontà come una ripresa interiore e ne fu contenta.

   Un giorno un “Vendesi” attirò l’attenzione di molti, era il cartello dell’appartamento mai aperto al mondo.


p.s. (le storie possono essere inventate, oppure avere un fondo di verità abbellito da passaggi dell'autore; spesso nelle mie storie c'è un collegamento a ricordi passati, a storie ascoltate o a osservazioni silenziose sul comportamento altrui: tutto può essere raccontato. Questa è una storia vera, romanzata in alcuni passaggi, ma è realmente accaduta: ancora oggi nel terzo millennio vi sono donne succube che, nonostante la cultura odierna, non riescono a opporsi alla famiglia e ne subiscono le conseguenze.)