lunedì 30 novembre 2015

Calore umano

                                                                    

   Un cenno e comprese. Aveva atteso… quanto? Un tempo interminabile, un lungo scorrere martellante che non gli aveva dato tregua, anche per il luogo, ciò che gli premeva era quella risposta rassicurante, quel riportarlo in vita: diversamente non ne avrebbe avuta una!
   Si era corroso nell’intimo, a cercare quelle risposte che sembravano tutte così superflue e deleterie. Quelle domande erano lì per ricordargli che forse avrebbe potuto, forse l’unico responsabile era lui dalla divisa impeccabile e sobria che incute rispetto; lui dal portamento fiero esecutore della pulizia etica, nulla e nessuno doveva sbarrargli il passo.
   “Un cane cento pecore, cento pecore un cane”, quella inconsueta frase gli martellava nel cervello, l’aveva udita da ragazzino quando suo padre soleva staccarsi la cintura dei pantaloni e lo scudisciava a suon di cinghiate. “Un cane cento pecore, cento pecore un cane”. Che cosa volesse dire, l’aveva compreso più avanti, quella strana filastrocca suo padre la reiterava nei momenti di punizione per ricordargli che il destino umano dei colpevoli è simile a quello degli animali: il cane deve ubbidire e vigilare, altrettanto le pecore che devono ubbidire e non smarrirsi, altrimenti il padrone punisce, riconducendole duramente all’ovile.
   Che strano, perché quei tormenti lo affliggevano proprio ora che cercava conforto? Ma egli, servitore della legge, era da solo con le sue elucubrazioni che trovavano spazio in quel frangente doloroso e anziché lasciarlo in pace, si compattavano con le ansietà del momento. La natura umana è bizzarra: l’inconscio deleterio emerge negli istanti strazianti, come se provasse gusto a instillare gocce brucianti su quelle ferite aperte.
   Era sprofondato sulla poltroncina, era stanco, aveva consumato quel corridoio asettico e cercava riposo sul sedile in eco-pelle, mentre quei pensieri gli scoppiavano sempre nella testa; aveva appoggiato il capo alla parete come a cercare refrigerio al fuoco esplosivo dell’angoscia. Le nocche conficcate nei palmi delle mani che a tratti asciugavano il sudore della fronte bruciante; poi con la mano destra di tanto in tanto scostava una ciocca di capelli, quei capelli tanto accarezzati da colei che aveva saputo amarlo a tal punto da comprendere i suoi strani turbamenti e complessi interiori.
   Era divenuto un uomo di giustizia proprio per sanare quelle conflittualità e dimostrare che con la rettitudine si fa pulizia della sporcizia umana, ma la vita ha un prezzo e il fango della società chiede un riscatto, se lo rimuovi torna per fagocitare prima gli affetti del suo pulitore. E così era stato: esso, “il fango”, aveva atteso e aveva sferrato l’attacco all’affetto più caro dell’esecutore della legge, un colpo preciso in pieno petto e il sangue zampillante si era sparso sul selciato con grande godimento del suo assassino.
   Ora l'uomo di giustizia era in quell'ospedale e sperava in un miracolo, aveva scostato il capo dalla parete e con occhi supplichevoli guardava la vetrata in attesa di notizie confortanti. Un attimo, e la sua vita si frantumò, dallo sguardo di dissenso del chirurgo … comprese. Abbandonò il luogo intriso di disinfettante e si avviò a perdifiato al porto, luogo magico per lui e per lei che non c’era più. Si erano conosciuti lì sul molo, la nave stava salpando per portarli in crociera sul Nilo, da quel giorno il loro viaggio non era mai terminato: sempre e poi sempre un crescendo d’emozioni magiche e d’amore incommensurabile.    
   Crollò sulla banchina e espresse tutto il suo dolore in un pianto convulso e irrefrenabile. La disperazione lo divorava, avrebbe voluto farla finita: la sua adorabile moglie non c'era più, strappata alla vita in modo atroce e solo perché lui difendeva la giustizia. Sentì d’improvviso due braccia robuste che lo stringevano, era il suo compagno di lavoro, un omaccione grande e forte come una roccia, ma dal cuore tenero e tanto umano. Fra quelle braccia con quel calore ebbe la forza di rialzarsi, si abbracciò a lui e s’avviò. Avrebbe avuto giorni bui, giorni di rifiuto alla vita, avrebbe covato il desiderio di vendetta. Avrebbe, avrebbe, certo avrebbe, ma il tempo sa come dare una mano nel percorso della vita.    

venerdì 20 novembre 2015

Dlin, dlin

                       Risultati immagini per ponte crollato per pioggia                                               

   Il cicalino partiva in sordina e diveniva sempre più insistente. “Dlin-dlin, dlin-dlin”, un suono in crescita martellante si diffondeva nella casa alle sei e quindici in punto. Ogni giorno stesso rituale e Federica controvoglia si poneva a sedere sul letto, senza aprire gli occhi spostava i piedi per infilarli nelle pantofole che faticava a trovare: ogni sera le lasciava scompostamente. Giungeva confusa in cucina e restava al buio, le dava fastidio la luce della plafoniera, preferiva muoversi con quei pochi riflessi di luce proveniente dalla strada: abitava a un primo piano e attraverso le fessure delle tapparelle la casa s'illuminava lievemente. Erano sempre quei cinque minuti di primo mattino, a farle desiderare la casa in penombra, poi, Federica prendeva vigore e tornava alla realtà, ma in quei cinque minuti niente e nessuno doveva disturbarla, neanche Fede, il marito.
   Era proprio strana la vita! Aveva fatto incontrare due persone con lo stesso nome, avevano anche sorriso quando s’erano presentati: “Federica – Federico. No!” esclamarono all’unisono. Lei accorciò a lui il nome, in quel simpatico diminutivo. La loro era un’unione scandita dall’amore e dagli scherzi di lui che le rallegrava l'esistenza mai banale, movimentata da quei momenti felici e spensierati.
   Quando Federica quella mattina cominciò a connettere, si rese conto che non erano le sei e quindici, bensì le sette in punto; adirata rivolse il suo pensiero al caro marito buontempone e fra i denti borbottò: “Quando torni, te la farò pagare! Sicuramente hai cambiato l’impostazione della sveglia!”Fede era fuori sede per un congresso: era un medico.
   Come una forsennata si lavò velocemente: il tratto che la separava dall’ospedale era lungo e non le piaceva giungere in ritardo; come medico del reparto gradiva dare il buon esempio ed era sempre giunta in perfetto orario, non avrebbe voluto che mettessero in giro false voci su supposizioni di comodo: aveva ottenuto il lavoro per meriti e non perché moglie del primario.
   Federica sbatté la porta di casa con rabbia e scese velocemente le scale, quella mattina anche l’ascensore le dava buca, era bloccato al piano superiore. Entrò in auto e partì velocemente, nonostante la pioggia battente avesse reso le strade poco praticabili. Percorse la città superando i limiti di velocità consentiti.
   “Sarò multata per eccesso di velocità!” si disse “La giornata è cominciata male e prosegue male, tutto a causa tua, stupido uomo!”imprecò “E rischio anche un incidente!”
   Stava per giungere in ospedale, quando si accorse che un assembramento di persone e auto bloccavano la strada, era il tratto che immetteva al ponte, quel vetusto ponte non ancora ammodernato. Federica accostò, scese dall’auto per rendersi conto del motivo dello sbarramento, mentre la pioggia implacabile scrosciava fittamente. Tutta l’ansia accumulata lasciò il posto allo stupore e allo sconcerto: il ponte era crollato e sotto di esso s'intravedevano auto schiacciate, macerie, fango, corpi di persone, e si udivano lamenti, urla. Sopraggiunsero i vigili, la polizia e le ambulanze, era uno spettacolo irreale. Lei si fece largo e a un poliziotto disse: “Sono un medico!” Prestò i primi soccorsi ed entrò in ambulanza, l’intera giornata la trascorse in ospedale, fortunatamente tanti erano stati tratti in salvo e assistiti egregiamente, l’unico deceduto era il giovane sul motorino.
   Fede aprì la porta di casa con circospezione: si aspettava una sfuriata da sua moglie; lui, quando lei s’inalberava, amava farsi perdonare, cingendola per la vita e baciandola con passione. Era un medico a contatto con le tristi realtà, ma nel quotidiano amava sdrammatizzare divertendosi un po’, proprio per addolcire l’esistenza così preziosa. 
   La cercò e la trovò appisolata sul divano, si accostò e delicatamente le sfiorò la guancia con un bacio; lei, diversamente dalle altre volte, gli saltò al collo e lo strinse con trasporto.
   “Amore, grazie, il tuo scherzo mi ha salvato la vita!” annunciò con emozione.

   Federica aveva appreso che la tragedia si era verificata alla stessa ora in cui lei sistematicamente percorreva il ponte ogni mattina.

sabato 7 novembre 2015

Il rispetto

                                                                       
                     

   S’increspavano e s’infrangevano le schiumose e biancastre onde in piena. L’anima dei flutti esplodeva in un tormento di amarezza e faceva udire il suo diniego al mondo. Il vento sibilava feroce in quel nuovo giorno che si annunciava tempestoso.
   Era da giorni che effettuavano quegli esperimenti al largo della costa oceanica, erano in mare aperto e seguitavano a infastidire quelle acque, una tortura per la fauna marina e la sua flora. Esplosioni a ritmo serrato, uno scombussolamento acquatico privo di rispetto, in una vibrazione senza sosta.
   Glauco, Dio delle acque, era in pena per i suoi abitanti e anche per gli umani: essendo stato anch’egli un uomo, un semplice pescatore che viveva un tempo dei prodotti del mare, comprendeva i danni che quegli scienziati senza rispetto stavano infliggendo al mondo globale. Allora convocò i possenti cetacei, gli insidiosi squali, le pacate tartarughe e pesci di ogni specie e dimensione, per ultimo la famiglia degli invertebrati. Giunsero in blocco frastornati e macilenti, altri infiacchiti e altri ancora avevano perso il senno; si radunarono alla rinfusa in un sit-in sul fondale marino. Glauco, roboante, cercò di richiamare l’attenzione per infondere loro quell’energia che avevano perso, mentre un’esplosione improvvisa sovrastò la sua voce. Atterrito e angosciato il popolo marino stava per inabissarsi, quando il Dio del mare li richiamò, ricordando loro che quegli uomini avevano oltrepassato ogni limite per cui andavano puniti. Il mondo marino si sarebbe rigenerato, mentre gli scienziati senza scrupoli e i loro simili non avrebbero avuto scampo: le acque si sarebbero innalzate fino al cielo e ogni cosa sarebbe andata distrutta. Non meritavano di vivere!
   “Non puoi fare questo!” disse una flebile vocina, era un cucciolo di delfino.
   “Tu, osi contraddirmi, piccolo cetaceo!” esclamò furente Glauco.
   “Signore divino, la mia mamma si era arenata ed è stata soccorsa da due bravi biologi, io non sarei qui se loro non fossero stati così generosi.”    
   Il Dio del mare ripensò a quelle parole e convenne che gli umani non sono tutti uguali: lui aveva vissuto nei panni mortali e aveva incontrato persone disponibili, altre insensibili, altre ancora opportuniste e ingannatrici, ma anche gente generosa pronta a schierarsi per difendere i propri simili. Avrebbe dato loro solo una lezione, un avvertimento, per far comprendere che non andavano sfidate le forze della natura.
   E quella mattina il cielo tuonò, Zeus dette man forte a Glauco, lampi e fulmini si abbatterono sulle coste, si scatenò una tempesta in cielo e in mare e i marosi furenti colpivano a scudisciate le imbarcazioni e le coste, senza clemenza alcuna, sempre con più forza e più vigore. Minuti di panico e di terrore, poi tutto si placò: tornò il sereno, le onde si ritrassero, il mare si acquietò e il vento soffiò come un refolo dolce al profumo salmastro. I balenotteri affiorarono a pelo d’acqua, i delfini fecero piroette, mentre i gabbiani li sorvolavano; le famiglie dei pesci palla, dei pesci rana, tigre e pesci migratori si assemblarono e ripresero a vagare gioiose nelle azzurrine acque. I coralli danzarono in un caleidoscopio di colori, la vegetazione fluttuò alla ricerca della luce, gli abissi marini si animarono in uno spettacolo meraviglioso e paradisiaco.
  Si destò in preda all’ansia, fra qualche giorno avrebbe dovuto salpare: nuovi esperimenti di armamenti chimico batteriologici sarebbero stati ripresi. Quel sogno l’aveva angosciato, egli non era mai stato d’accordo con gli altri ricercatori, ma suo malgrado, aveva approvato il progetto: dirigeva le operazioni. Spalancò le persiane: aveva bisogno di ossigenarsi. Contemplò il cielo terso e ne ammirò la bellezza con nuovi occhi. Mirò la strada alberata del suo quartiere e gioì alla vista del fiore di magnolia, lo stupendo fiore bianco dal profumo delicato pareva un’orchidea pronta per essere offerta in dono ad una sposa. Una coppia di passerotti passò in volo e una farfalla si posò sul suo davanzale, i raggi diretti del sole lo avvilupparono, anzi parevano schiaffeggiarlo.
   ‘Non è giusto!’ pensò.
   Chiuse le imposte, si fece forza e …

lunedì 2 novembre 2015

Gelée alla fragola

                                                       
                          


   Umettavo con la lingua le labbra e quel gusto nauseante era l’unico contatto con la realtà che percepivo distante. Ero in una dimensione che non coglievo, mentre annaspavo nei meandri della memoria cercando di emergere dal limbo oscuro dal quale stavo risalendo. Pian piano giungevano a me suoni ovattati e confusi, voci fastidiose che non riconoscevo; l’unica certezza era quell’intenso sapore di fragola che mi riportò indietro facendomi riappropriare dei miei ricordi.
   “Francesca, mi sposo!” annunciò con gioia stentata Valentina, la mia amica preferita.
   “E quando l’hai conosciuto?” le chiesi meravigliata. Eravamo sempre insieme, tranne i fine settimana, quando io tornavo al paese dai miei, come studentessa fuori sede iscritta alla facoltà di Medicina.
   “L’ho incontrato un sabato pomeriggio all’ingresso del cinema. Lui era lì per la prima visione e poi… ci siamo ritrovati seduti accanto, alla fine del film eravamo amici. Così è nata la nostra storia!”
   “Valentina,” rimarcai “noi ci confidiamo tutto, perché mi hai taciuto un evento così importante? Viviamo insieme da sei anni, sai tutto di me!”
   “Non potevo.” mi confidò a testa bassa “Lui è Alfonso, il tuo Alfonso! Lo so che lo ami ancora.”
Alfonso, lo conoscevo dall’infanzia, era il più bello del nostro paese prospiciente il mare. Ci s'incontrava quasi tutti i giorni e io sentivo il cuore in gola ogni qual volta lo incrociavo, ma fingevo di nulla, quel sentimento che s’affacciava l’avevo taciuto persino alle mie compagne di classe che morivano per lui. Crescendo Alfonso, studente liceale, prosperò anche in bellezza: da adolescente carino ma acerbo, divenne un giovane dal fascino alla Brad Pitt.    
   Io e lui ci incontravamo tutti i giorni, abitavamo nella stessa zona ed eravamo amici fraterni, ma una mattina mentre mi recavo a scuola, lui mi sbarrò la strada ed azzardò: “Andiamocene al mare, per un giorno saltiamo la scuola!”
   Anch’io frequentavo l’istituto di Alfonso, ci separavano tre anni di età, io ero al quinto ginnasio e lui al terzo liceo.
   “Scherzi”, gli risposi sbarrando gli occhi!
   “No! Ho voglia di stare con te!”
   Mi ritrovai al mare, eravamo all’inizio di ottobre e il clima era ancora estivo, non mi preoccupai di nulla e dimenticai i miei, i professori e il mondo intero. Se lui era bello, di me dicevano in giro che ero una brunetta niente male, solo che… io ero una quindicenne insicura che non si piaceva. Con Alfonso, scoprii di essere bella e mi amai come amai lui profondamente, quella mattina nacque una nuova Francesca. Per un anno intero fummo sempre insieme, ma dopo qualche mese dopo la maturità, Alfonso lasciò il paese e si trasferì per frequentare l’università.
   “Non ci saranno problemi, amore.” mi rivelò “Verrò i fine settimana, poi ci sentiremo per telefono, abbiamo la tariffa “You and me”, vedrai… sarà ancora più bello!”
   Pian piano non ci sentimmo più e io non potetti contattarlo, seppi in seguito da amici comuni che aveva cambiato scheda telefonica, non voleva più saperne di me: cambiava ragazza come si cambiano i calzini.
   Dopo aver rivangato, mi rivolsi a Valentina fingendo indifferenza: “Ti sbagli cara, ero innamorata di lui, lui è il passato. Verrò al vostro matrimonio e se vuoi farò anche la testimone!”
   Me lo ritrovai al paese una domenica mattina, mi si parò davanti con nonchalance, come se ci fossimo lasciati il giorno prima.
   “Francesca tu sei stata l’unica per me”, mi confessò con foga. “Avevo paura del sentimento vero che si stava impossessando di me. Ho dovuto farlo… Valentina rappresenta la certezza economica, lo sai quanto è influente suo padre nel mondo politico.”
   “Ma davvero?” sbottai. “Sei solo un arrivista senza sentimenti. Ho perso tempo con te, coltivando quest' amore che mi brucia ancora! Sparisci Alfonso, non preoccuparti ci sarò alle tue nozze, voglio guardarti in faccia quando pronuncerai il ‘si’ per godermi la scena!”
   Ero sull’altare accanto all’altro testimone e non ce la feci. Scappai via, raggiunsi la mia auto e mi sedetti al posto di guida, aprii istintivamente lo sportellino del vano oggetti e presi una gelee alla fragola, continuavo a mangiarne ancora da quando me le aveva offerte Alfonso, durante i nostri passati incontri. Mi pareva di udire la sua voce morbida che mi diceva: “Voglio che i nostri baci sappiano di fragola… frutto afrodisiaco.”
   “Brutto schifoso!” urlai, mentre afferrai la morbida caramella per addentarla con rabbia.
   Partii all’impazzata, svoltando alla prima curva e con un testacoda dopo aver urtato violentemente il guardrail, precipitai nel burrone sottostante.
   Riaprii gli occhi. Quanto tempo è passato, mi chiesi guardandomi intorno? Scorsi i volti dei miei genitori che mi sorridevano paradisiaci e io ciancicai a fior di labbra: “Sono viva?”, mentre quel sapore di fragola non mi lasciava.
   “Bentornata fra noi, cara!” annuì mia madre col volto impastato di lacrime.
   Sibilai un ‘grazie’, volgendo gli occhi al cielo che s’intravedeva attraverso la vetrata di quella camera asettica d’ospedale.