martedì 19 aprile 2016

Impressioni di lettura

                                                                          


   Titolo intrigante dallo spunto riflessivo: un titolo contiene un messaggio e anche se nello specifico si tratta di una silloge di racconti, quindi ogni storia è a se stante, comunque esiste un filo conduttore, un genere letterario che accomuna l’intero libro di Grazia Giordani, scrittrice, giornalista e critico letterario. Un libro che cattura al primo sguardo: sulla copertina primeggia la Pescatrice, opera di Giorgio Giordani rinomato padre dell’autrice morto prematuramente, scultore di grande talento, del quale si è ingiustamente obnubilata la memoria e la valenza artistica. 
   Grazia Giordani ha ereditato l’amore per l’arte in ogni forma e della quale ha competenza e passione che trasmette ai suoi lettori. Le sue recensioni artistiche e letterarie sono appassionate e dettagliate, esaustive nella valutazione e da più di vent’anni è critico letterario del quotidiano l’Arena. I libri sono la passione primaria di Grazia Giordani, senza nulla togliere all’arte pittorica, alla conoscenze delle lettere e alla scrittura sempre raffinata e gentile, scrittura che denota l’essenza stessa dell’autrice.   
   La silloge, con il primo racconto che porta il titolo del libro, c’introduce nell’ambiente fanciullesco, nella rimembranza dei ricordi che partono dall’infanzia ai banchi liceali, a quell’amicizia femminile fatta di conoscenza e osservazione da parte dell’autrice di un comportamento strano della sua amica, una morbosità esagerata nei confronti degli animali, morbosità che la portava a scuoiare uno sfortunato ramarro per metterlo a nudo. Con la crescita le strade si separano e restano i ricordi di quelle anomalie, da divenire un racconto iniziale della silloge che ha un filo conduttore: svelare le emozioni più intime dei protagonisti.
   Sono storie di vita ora reali ora immaginate, come se i pensieri prendessero corpo e si materializzassero: in “Dissolvenza” c’è tutta la sinestesia che procura emozioni, accompagnandoci per mano e siamo spettatori di un irreale che pare esserci, di un immaginario creato ad hoc perché rappresenta i desideri più riposti.
   L’autrice ha origini emiliane, ma la sua vita matrimoniale e lavorativa si svolge a Badia, zona nei pressi del fiume Adige che porta l’eco dei monti; un fiume è pace, concentrazione e ispirazione che prende forma nelle storie di Grazia Giordani e “nell’Eco della Montagna” che le valse un premio, c’è tutta l’atmosfera e la consuetudine dei gesti, della ripetitività scontata che appiattiscono i rapporti, e a farne le spese è la protagonista Helga alla quale resta il bellissimo spettacolo montano con i suoi rumori, odori e sensazioni. “Il mormorio delle fronde, il sapore pastoso delle castagne, il mistero del bosco, la musica del vento” metafore che la scrittrice sa come dosare e creare. 
   Innamorarsi di una foto, accade e molto più spesso di quanto si pensi, è la storia del protagonista del racconto che s’intitola “La Fotografia”, l’uomo è ossessionato da quella foto pubblicitaria e scopre che appartiene a una scrittrice che reclamizza l’ultimo romanzo. Lui l’adora ma vorrebbe farle piegare quell’alterigia che appare sul suo sguardo e farnetica in strane elucubrazioni; del resto è ben avvezzo a vari deliri che cerca di arginare con sedute psichiatriche, ma al tempo stesso giustifica il suo comportamento paragonando le sue paranoie a quelle di Nietzsche e Schumann.
   E che dire di Ginevra protagonista del racconto “Frenesia”, Ginevra vive fra le pagine di un libro e decide di divenire un personaggio reale uscendo dalle pagine del romanzo, materializzare la sua entità incorporea e surreale per provare l’ebbrezza della realtà, una frenesia appunto. Nel reale anche noi vorremmo costruirci un’altra vita, magari nella nostra ci stiamo stretti e vorremmo uscire dalle nostre pagine scritte di vita vera, ma non abbiamo il coraggio di farlo, di prendere una posizione e restiamo chiusi nel nostro inciso fra due virgole.
   La raffinata signora del “Mistero a margine” pone degli interrogativi, delle riflessioni letterarie e deduzioni psicologiche, fa accenno ai grandi letterati, poeti, filosofi dei quali ha conoscenza e amore, ma non è ostentazione di quell’amore, è solo passione da trasmettere ai lettori, perché lettura è arricchimento e se alla piacevolezza si unisce la classe della conoscenza, un libro è un giardino di magnificenze per lo spirito e per la mente.
   La scrittura di Grazia Giordani non è solo storia raccontata è molto di più: nell’eleganza delle sue parole vi sono rimandi letterari e artistici di grande spessore e competenza.  

   

lunedì 11 aprile 2016

Impressioni di lettura


                                       



   Ho ritrovato anche in questo romanzo lo stile di Màrai, scrittore ungherese di culto, quello stile fluido e attuale, quello stile che incatena e non lascia spazio ad interruzioni: l’abilità di Màrai sta nel destreggiarsi fra i vari registri dei personaggi che offrono un quadro fedele del contesto narrativo. Il tutto, di volta in volta, è raccontato sotto forma di monologo rivolto a un interlocutore privo di voce, un ascoltatore paziente che sta lì a raccogliere le confidenze senza interferire.
   Il romanzo è stato scritto dagli inizi degli anni quaranta e poi ripreso nell’epilogo trent’anni dopo e riguarda una vicenda che va dagli anni venti fino all’inizio del regime comunista in Ungheria con uno scorcio sull’America degli anni sessanta. La storia è divisa in tre parti, la parte conclusiva è quella più moderna nel linguaggio e ci presenta un po’ la vita statunitense degli anni in questione quando la tecnologia aveva semplificato la vita del proletario che, ottenendo prestiti, poteva permettersi quei beni di lusso venduti dai borghesi. La vicenda, oltre che riguardare un triangolo amoroso: due donne si contendono lo stesso uomo, è incentrata sulla descrizione della classe borghese vista attraverso gli occhi di due persone appartenenti al mondo rurale ungherese.
   La scena si apre in un'elegante pasticceria di Budapest, è un pomeriggio e una donna, Marika,scorgendo il suo ex marito, Peter, confida all’amica le vicende del suo infelice matrimonio e dell’assoluta dipendenza dal marito, uomo austero e affidabile legato ai formalismi e alle consuetudini. Per Marika crolleranno le certezze nei confronti del marito, quando ritroverà nel portafogli di Peter un nastro viola accuratamente riposto; un lembo di nastro, testimonianza di una passione bruciante per un’altra. In un monologo ben costruito Màrai narra la vita matrimoniale dei due borghesi, la nascita e morte del loro unico figlio, l’importante amicizia di lui con uno scrittore che non abbandonerà questa storia fino alla fine e infine la rottura del matrimonio.
   Nella seconda parte è Peter a parlare, Màrai offre la possibilità al lettore di apprendere la stessa storia con gli occhi del protagonista di turno. Peter, uomo colto e raffinato, appartenente a una ricca famiglia borghese, toccherà argomenti più profondi: ricordi di famiglia, crisi della classe borghese soffocata da rigide convenzioni e tensioni fra le varie classi sociali sul rapporto uomo donna; un soliloquio che si snoda in frasi lunghe e ricercate impreziosite da eleganti metafore.
   Nel terzo monologo entra in scena Judit, la proprietaria del nastro viola, colei che farà fallire il matrimonio dei due coniugi dell’alta società; lei la plebea poverissima che viveva con la sua famiglia d’origine in una fossa a contatto con i topi, lei che per sopravvivere va a servizio presso la famiglia di Peter il quale s’innamora della serva, ma sarà una passione che nulla concederà se non con il matrimonio. Judit racconta al suo innamorato del momento, un musicista, tutta la sua storia sin dagli albori; racconta la vita dei signori che poi saranno suoi suoceri, descrive ogni particolare di quell’esistenza fatta di lussi e di sprechi, di beni materiali ma non spirituali, di divari affettivi che sfociavano nell’infelicità.  La lingua nella quale si esprime Judit è semplice, ma al tempo stesso colta e ironica, intrisa di quel sarcasmo mai banale frutto delle sue conoscenze borghesi: Judit imparò in fretta tutto il saper vivere.     
   Nell’epilogo Màrai fa parlare Ede, il musicista, colui che dopo essere sfuggito all’AVO (famigerata polizia politica del regime comunista ungherese) va in esilio a Roma, dove incontra Judit e vive con lei un’intensa storia d’amore. Da lei apprende la sua storia in una notte in cui lei si confida mettendo a nudo la sua anima; lui inizialmente credeva di aver scordato, poi la storia si ricompone come in un puzzle e gli torna in mente e la ripercorre ad un altro interlocutore mentre è in un bar di New York come barman.
   Le vicende di “La donna giusta”si sviluppano dalla Budapest degli anni quaranta attraverso l’Italia fino a raggiungere gli Stati Uniti e ripercorrono le tappe della vita dello scrittore che, per sfuggire al detestabile comunismo ungherese, visse in esilio per il mondo. Màrai anche in questo romanzo si cala perfettamente nei panni dei personaggi: due donne e due uomini di estrazione sociale differente e li fa parlare con sensibilità e chiarezza, avvincendo il lettore in ogni passaggio ben costruito e altamente particolareggiato.
   Il titolo ci porta a una riflessione, il compagno o la compagna è la persona giusta? Cosa è giusto: il sentimento o la passione, il matrimonio o l’amore?

domenica 3 aprile 2016

Il sacrificio sminuito

                                                         
                               Risultati immagini per laurea in giurisprudenza

   Siamo nell’atrio dell’Ateneo per le rituali foto di gruppo con parenti ed amici, indosso ancora la toga pregna delle sensazioni emozionali e paradisiache vissute da questa mattina, dal momento in cui nell’aula Magna in fila ad altri candidati Dottori della Legge, attendevo la convocazione alla discussione della tesi di Laurea.
   Alle mie spalle ci sono tutti coloro che hanno condiviso questo percorso di studi e anche coloro che ne erano solo informati. Mi giro un attimo e saluto con lo sguardo carico di gratitudine i miei genitori che hanno permesso la realizzazione della mia aspirazione, i miei cari genitori che con il loro sostegno, appoggio morale ed economico mi hanno consentito di sudare sui libri anziché sudare sulla terra.
“Rodolfo”, ricordo ancora il tono di voce e l’espressione di mio padre, dal volto bonario arrossato dal sole. “Oggi ti sei diplomato, continua a studiare!” lo disse con parole semplici così com’era la sua conoscenza. “Sei bravo con le parole, tu devi fare l’avvocato, devi difendere noi lavoratori e tutti quelli che subiscono!”
   Papà! Tu hai desiderato per me un avvenire diverso dal tuo, hai voluto che io non mi sporcassi le mani con la terra, che non mi spezzassi la schiena chino sui campi sotto i vari cambiamenti climatici, dicevi : “Mio figlio farà il signore e combatterà i signori e tutti quelli che si approfittano di noi onesti lavoratori!”
   Sin da piccolo avevo mostrato inclinazione allo studio, in seconda elementare sbalordii la maestra con un componimento dalle riflessioni profonde e alle scuole medie i miei temi venivano letti in classe: la mia passione era l’italiano, ma non per questo tralasciavo le altre materie, le studiavo tutte, più vedevo mio padre sudare sulla terra e più lo ricompensavo applicandomi sui libri. Questo fu il mio motto “studiare e poi studiare” per pareggiare i sacrifici del mio genitore che mi tenne lontano dal suo lavoro per fare di me un acculturato dalle mani pulite e carezzevoli.
   Non ci furono dubbi, il classico fu la seconda tappa di studi e io al mattino presto salivo sul treno per raggiungere il capoluogo di provincia dove frequentavo il liceo più rinomato della città, rinomato per l’insegnamento serio e professionale e per la disciplina; i migliori laureati avevano conseguito la maturità classica presso quell’istituto, era un fiore all’occhiello, un vanto personale il diploma di quel liceo che portava il nome di un illustre filosofo.
   Dalla pubertà alla prima giovinezza feci lo studente pendolare mai con rincrescimento, ma con soddisfazione d’appagare la mia sete di cultura e inorgoglire i miei genitori che a differenza di altri del loro ambiente, non mi chiesero mai di continuare il lavoro agreste di famiglia che per quanto faticoso e vincolato alla bontà del cielo, era comunque un’occupazione che non lasciava a bocca asciutta. Con le giornate corte, mio padre e io rientravamo quasi assieme, io ben vestito e curato e lui sporco di terra e sudato. Lo osservavo e dentro di me provavo sofferenza, eppure l’avevo visto sempre così: il suo aspetto non era cambiato, ma dopo la mia fanciullezza sentii nascere sensazioni nuove e meditazioni diverse.
   Non provavo vergogna per i suoi abiti da lavoro e per la sua mancanza di cultura, al contrario cresceva in me il dolore per non poterlo aiutare ad alleviare le sue fatiche, mi sentivo un opportunista che sfruttava l’occasione donata, mettendomi comodo davanti alla scrivania al riparo della mia camera. Ci riunivamo intorno al tavolo verso sera, per l’unico pasto del giorno e i miei genitori chiedevano solo di me e della mia giornata scolastica, appena accennavo un riferimento su di loro eludevano la domanda, volevano che io parlassi esclusivamente del mio studio.
   “Rodolfo”, esordì in tono perentorio una sera mio padre. “La devi smettere di pensare a me! Sei tu quello che mi dà la forza di lavorare sempre di più, lo studio è ugualmente faticoso, ti impegna con la testa!”
   Che genitore… quanta saggezza, quanta bontà d’animo! Egli sin da ragazzino aveva lavorato nei campi con mio nonno, corrugandosi la fronte battuta dal sole e sciupandosi le mani sempre nell’onestà più assoluta, rispettando le regole del padrone, del proprietario terriero che esigeva e sfruttava con sfacciata acrimonia, calpestando i lavoratori mansueti, senza voce.
   Durante l’estate non cercavo la distrazione, la mia vacanza ce l’avevo a portata di mano … la campagna. Seguivo mio padre nei campi mettendomi a disposizione: era una vera gioia rendermi utile quando le scuole erano chiuse, dall’alba al tramonto a contatto con la natura e con mio padre che veneravo. Adoravo quei momenti tutti nostri e quel dolce conversare, mentre sbocconcellavamo i panini imbottiti preparati da mia madre nella pausa veloce; seduti al fresco della quercia secolare eravamo in due ad asciugarci il sudore con i fazzoletti colorati: quella condivisione era per me qualcosa di speciale! Il volto sorridente e tranquillo di mio padre mi penetrava il cuore, pendevo dalle sue labbra: quei racconti puri, semplici di un vissuto alla luce del sole, erano più interessanti di tanti sciocchi dialoghi giovanili. Ritornavamo a casa su di un modesto treruote che arrancava ad ogni salita e faticosamente riprendeva la corsa sul rettilineo, ma la stanchezza non ci impediva di cantare le canzoni del momento, come fossimo stati entrambi ragazzi: lui per me era un amico, molto più che amico.
“Come è andata oggi?” esordiva mia madre che ci accoglieva sempre con il sorriso, mentre i profumi della cucina giungevano alle nostre narici. Noi al lavoro e lei in casa ad attenderci. Queste erano le nostre estati, bisognava sacrificarsi e risparmiare in nome della cultura, in nome del mio avvenire.
   Il primo  traguardo era raggiunto: avevo conseguito la maturità classica con la massima valutazione. Fu organizzata una festicciola all’aperto dinanzi alla nostra casa situata alla periferia del paese, una di quelle abitazioni a piano terra dotate anche di un piccolo spazio verde: un giardino ridotto, simile ad un cortile. Per l’occasione furono invitati anche i miei amici e parenti stretti, tutto si svolse in armonia a suon di musica, e fra una leccornia e l’altra…
   “Rodolfo, che farai ora? Andrai all’università?” rispondeva mio padre al posto mio: “Farà l’avvocato!”
“L’avvocato?” riprendeva mio zio. “Ce l’ha lo studio? Solo i figli degli avvocati fanno la professione, gli altri sono solo servi dei legali, servi non pagati!”
   “Rodolfo è bravo, lui ce la farà con le sue forze!”
   Era questa la certezza di mio padre e non ammetteva repliche!
   Ricordo ancora oggi il mio primo esame: Diritto Privato! Questo fu il primo approccio con la Facoltà di Giurisprudenza, questo fu il mio esordio. Studiai con interesse e passione le norme giuridiche di quella materia, assimilandola paragrafo per paragrafo e la sera precedente all’esame, restai sino a tardi con il libro fra le mani, passeggiando avanti e indietro nella mia camera parlando a voce alta, mentre i miei genitori bisbigliavano fra loro:
   “Povero figliolo… che la Madonna l’accompagni, domani!”
   Tornai a casa fiero e soddisfatto, di aver ricevuto la ricompensa per me stesso e per i miei genitori: sul libretto universitario immacolato e intonso, compariva segnata ora la prima riga, con la dicitura, “Diritto privato- trenta e lode” , seguita dalla firma del docente d’esame che aveva elogiato e premiato la mia preparazione.
   Fu un susseguirsi di successi: in tre anni bruciai tutte le tappe. Studiavo costantemente non concedendomi distrazioni e il mese in cui la facoltà era chiusa, preparavo un piano di studi per la sessione successiva. Avevo fretta di arrivare, mi dicevo: “Avrò più chance con la mia giovane età!”
Mia madre era preoccupata, voleva che mi concedessi delle pause, che alleggerissi la mente.
   “Rodolfo, vai al mare con gli amici, ti farebbe bene un po’ di sole!”
   “Va tutto bene mamma… va tutto bene!” le dicevo, mentre la stringevo a me fortemente. Che donna: tutta la sua vita era stata un sacrificio! Da ragazzina aveva dovuto occuparsi dei suoi quattro fratelli, quando mia nonna morì per un epatite e poi con mio padre, brava persona, aveva combattuto la miseria ed in seguito i sacrifici economici, senza mai lamentarsi e incoraggiando sempre tutti. La forza di mio padre era lei, solo lei!
   La tesi in “Diritto del Lavoro” è stata un successo, mentre la esponevo oltre che dal mio Relatore ricevevo sguardi di compiacimento anche dai Docenti presenti, nessuna interruzione: tutti in religioso silenzio!  Nelle mie orecchie risuona ancora :
- Le conferiamo il titolo di Dottore in Legge: votazione“110 su 110 con Lode e Plauso”!     
Sto per lasciare l’Aula Magna, i miei parenti mi attorniano, quando il mio Relatore, rinomato avvocato, mi indica di raggiungerlo.
   “Prenditi tutto il tempo che vuoi.” mi dice cordialmente. “Ne hai bisogno, ti aspetto poi nel mio studio per il praticantato!”
   E’ il mio primo giorno da Dottore praticante, prima di uscire di casa i miei genitori mi guardano con soddisfazione.
   “Auguri Rodolfo, te lo dicevo io che avresti fatto l’avvocato”, aggiunge mio padre. “Sono fiero di te… ricordati di noi lavoratori sfruttati!”
  “Papà, per ora devo fare solo il tirocinio, ma terrò sempre a mente ciò che mi hai insegnato. I tuoi ideali, sono anche i miei!”
  Entro nello studio megalattico con circospezione, mi viene incontro il Docente Avvocato.
   “Ti aspettavo Rodolfo.” si era instaurato un rapporto familiare: il suo tono era pressoché paterno. “Ho già predisposto la tua scrivania, sono sicuro che questi due anni voleranno in fretta, poi… resterai con me come collaboratore, non posso lasciarmi scappare un genio come te!”
   Mi sento al settimo cielo, prendo possesso della mia postazione e senza perder tempo comincio a visionare alcuni fascicoli, ora devo mettere in pratica ciò che ho acquisito con la teoria, la voglia di fare è tanta, non dovrò deludere me stesso, i miei genitori ed il mio Dominus che credono in me.
Trascorro i due anni di tirocinio fra il tribunale e lo studio, dove in quest’ultimo sono il primo ad arrivare e l’ultimo ad uscire, porto anche il lavoro a casa per studiare ogni minuzia, ogni strategia processuale: il mio obbiettivo è sempre lo stesso imparare per raggiungere la meta.
   “Papà hai davanti a te l’Avvocato che desideravi, sono abilitato! Ho superato gli esami a pieni voti! Sono terminati i tuoi sacrifici e potrò finalmente incominciare a guadagnare anch’io! Il professore mi ha chiesto di restare con lui, gli sono indispensabile!”
   Occupo un’altra stanza più consona al mio ruolo: sono un professionista a tutti gli effetti, dotato anche di computer personale; mi accomodo sulla nuova sedia in pelle imbottita e per un attimo mi lascio andare mentalmente.
  “Potrò comprare la nuova auto al papà che va in giro ancora con quel vecchio catorcio, e alla mamma che continua a lavare i panni ancora a mano faticosamente, le farò consegnare la lavatrice, poi… ci sono anch’io, ma per quello c’è tempo, l’importante è che non peso più sulle spalle di mio padre, unico lavoratore d’una famiglia monoreddito!”
   Lavoro da sei mesi come professionista abilitato, sostituisco il mio Dominus in alcuni processi civili e recentemente in un caso particolare ho firmato al suo posto con il mio cognome (non ho potuto esimermi, quando mi ha chiesto di fargli da prestanome), tutto va alla grande meno che… per un particolare decisamente rilevante, sono ancora a carico di mio padre: lo stimato Docente Avvocato non mi ha ancora gratificato economicamente, mi attendevo almeno una modesta somma di incoraggiamento: nulla, neanche un centesimo e neanche una parola al riguardo.
   Mi dicono : “Gli inizi sono così non si può arrivare subito, sei già fortunato a far parte del suo staff. Ti pagherà, ti pagherà e ti farai anche la clientela!”
   Sto perdendo la pazienza, il tempo passa e l’unico compenso ricevuto è stato il contentino natalizio lasciato in una busta sulla mia scrivania, con tanto di biglietto augurale “ Buon Natale: questo è solo l’inizio!”... assieme al biglietto fanno capolino 500 Euro! 500 modeste euro, dopo tutto il lavoro sbrigato solertemente e instancabilmente… non ho neanche il coraggio di dirlo a mio padre! Comunque andrò avanti, persevererò, ho dalla mia la giovane età: riuscirò a spuntarla!
   Un giorno una brutta notizia mi giunge allo studio, sono io a prendere la telefonata.
   “Rodolfo”, mi dice mia madre angosciata. “Tuo padre ha avuto un collasso, stiamo per accompagnarlo al pronto soccorso!”
   Non ho avuto neanche il tempo di udire la sua voce per l’ultima volta, la sua anima è già volata in cielo; non ha sofferto mi dice la mamma abbracciandomi e io sento più che mai di non aver esaudito il desiderio di mio padre, risuonano ancora nelle mie orecchie le sue convinte parole:
“ Mio figlio farà l’avvocato, per difendere noi lavoratori sfruttati!”
   “Mamma, devo andare.” le dico sommesso, tenendo a freno tutta la rabbia che ho in corpo. “Devo  farlo per papà, io sarò quello che lui voleva! Quel relatore tanto magnanimo mi sfrutta e basta, non posso neanche accattivarmi i suoi clienti perché essi non vengono da noi, il mio Dominus si occupa di società.”
   Lascio la mia terra con rimpianto, ma combatterò affinché il mio sacrificio e quello dei miei genitori venga considerato, per dare voce a coloro che non ce l’hanno e per contrastare sopra ogni cosa le ingiustizie… le prevaricazioni perpetrate dai potenti.
   “Ce la farò papà, vedrai… in futuro sarò l’Avvocato dei tuoi sogni!”