mercoledì 27 febbraio 2013

Tutto torna (prima parte)

                    

   Un pizzico di civetteria. Oh, cosa sarà mai! si disse. Era pur vero che affrontava un lavoro serioso, uno di quelli che mai si sarebbe aspettata, ma era giunto e Dio solo sa quanto aveva sofferto e sperato e da oggi era il Direttore Capo dell'Istituto di Pena più duro del circondario. Ce l'avrebbe fatta: doveva. E nessuno l'avrebbe osteggiata o denigrata.
   Entrò. Varcò quella soglia che tanto l'affliggeva: un tempo, abbastanza remoto, lei era stata ospite di quella casa circondariale, ospite forzata. Sua madre l'aveva partorita lì, fra quelle anguste e squallide mura, e per un determinato tempo ne aveva trascorso la primissima infanzia; mai nessuno dei suoi stimati parenti si era premurato di venire a cercarla, di portarla lontano da quell'ambiente e lei era cresciuta così, chiedendosi, dopo, dove fosse stata la sua famiglia. Disumani! Aveva coltivato un odio sottile, odiava il genere umano in particolar modo il genere parentale, molto meglio gli estranei: doveva a loro, se aveva conosciuto un'esistenza  diversa fuori dalle mura penitenziarie .
   "Mammina, cosa c'è lì fuori?"
   "Il mondo." le rispondeva la madre, e lei Giulia non comprendeva cosa fosse il mondo. Formulava quella domanda da quando aveva sentito le compagne della mamma dire che fuori era bello, ecco perché poneva con insistenza quella domanda. Per lei esisteva quella stanza con le sbarre alla finestra e ne osservava il cielo che s'intravedeva, quadrati di azzurro o di nubi, piccoli squarci di luce che poteva mirare completamente durante l'ora d'aria di sua madre che in quel luogo penitenziale non l'affidava a nessuno.
   "Io e te, sempre insieme!" diceva soventemente "Solo noi due, amore mio!" Ricordava come diveniva belva se qualcuna le si avvicinava, ricordava il tono minaccioso e furente di lei, si facevano da parte quando sua madre indirizzava uno sguardo severo, poi comprese il perché e ne comprese anche il motivo.
 
   "Filomena o dovrei dire dottoressa, anche se mi riesce difficile."
   "Lasci perdere, avvocato, continui a chiamarmi con il mio nome, lei è come un padre per me."
   "Non esageriamo, non sono così vecchio, del resto quando ti ho conosciuta bimba ero un giovane laureando e tuo padre era il mio relatore."
   "Un docente che poi divenne il suo miglior amico, disparità d'età ma intesa su tutti i fronti."
   "Eri una bambina bellissima e del resto anche ora..."
   "Troppo generoso. Ora mi dica, qual'è il mio ruolo?"
   "Occuperai questa postazione, accanto alla mia camera; vedrai, sarai un eccellente avvocato penalista."
   Filomena si fermava sino a tardi, aveva preso a cuore quel lavoro, lo sentiva suo e voleva portarlo avanti con alacrità: sperava di continuare a svolgere la professione, in quello studio, magari come avvocato associato. Studiava ogni passaggio, ogni indagine, e si occupava con soddisfazione della stesura degli atti processuali che studiava anche a casa; se suo padre fosse stato in vita, sarebbe stato fiero di lei.
   Era una serata d'inverno estremamente fredda e piovosa e Filomena si era attardata più del solito: l'indomani prendeva il via un processo penale ai danni di una donna incriminata di omicidio per la morte del marito. Dalle indagini risultava che il delitto era preterintenzionale: la donna non aveva intenzione di ucciderlo, e viste le ripetute vessazioni alle quali era sottoposta, la reazione di lei era stata quasi una conseguenza rivelatasi fatale mentre cercava di difendersi. Filomena era talmente assorta che era rimasta alla scrivania con la sola luce della lampada da tavolino, sentì un fruscio ma non volle darne peso, ormai con le sue indagini era spesso avvolta da un'atmosfera sinistra e non voleva che i suoi pensieri la suggestionassero, perciò ignorò quell'impercettibile sibilo. Tutto si svolse in frazioni di secondi, una misteriosa figura coperta in volto da passamontagna le giunse alle spalle e le pose un laccio alla gola, mentre con una voce cavernosa le raccomandava di tacere se voleva salva la vita. Inizialmente non poté riconoscerlo, ma sentì il suo peso quando la scaraventò sulla scrivania e fulmineamente la stuprò; lei dovette subire stringendo i denti: il laccio stringeva e stringeva. Le mani della giovane erano libere e mentre lui godeva insaziabilmente, lei raggiunse il tagliacarte e lo affondò sulla schiena del violentatore, non smise neanche quando lui cadde insanguinante a terra; la donna delle pulizie, il giorno dopo, la trovò in stato confusionale sull'uomo in una pozza di sangue.  "Maledetto porco!"esclamò, quando i poliziotti la portarono via: aveva fatto in tempo a vederne il volto, era il suo Avvocato padre.
   Fu condannata, da quella violenza nacque Giulia che vide la luce in galera e visse nel luogo di pena oltre i tre anni stabiliti dalla legge, dei suoi noti parenti stimati in città neanche l'ombra. Giulia entrò in seguito nella casa famiglia gestita dalle Suore e istituita per i figli dei detenuti e per tutti i giovanissimi con seri problemi sociali; la madre in un momento di acuta depressione si tolse la vita e mise fine al suo tormento.
 
   "Ricordo tutto, mamma. Ero piccina, ma non ho dimenticato il tuo amore e il tuo sguardo malinconico e l'odio che avevi per il genere umano. Ricordo con dolore quando venivo in visita e mi chiedevi di restare con te, mi chiedevi di portarti via. Ora sono io a dirigere questo posto. Che salto di qualità, vero mamma? Tutto torna, tu saresti stata un eccellente avvocato penalista, io ora dirigo il luogo che ti vide reclusa, il luogo che ti umiliava. Sono passati venticinque anni, ma vi sono ancora le secondine di un tempo, quelle che non compresero mai il tuo dolore, quelle che ti insultavano come fossi stata una prostituta. Dicevano che te l'eri goduta. - Quella se l'è cercata! - questo dicevano. E guardavano me come la figlia della puttana assassina. Tutto torna, mamma: ora sono qui e se la vedranno con me." (continua)


sabato 23 febbraio 2013

Comunicazione

   

   E' più facile comunicare a voce o per iscritto? Parrebbe facile la risposta: ognuno si affiderebbe alle proprie inclinazioni. 
   Chi ama il dialogo vis-a vis preferisce comunicare guardando in faccia il suo interlocutore, per sentirne la voce e coglierne l'espressione. Il contatto visivo e tattile, capita di avere uno scambio d'idee fatto anche di pacche sulla spalla, di strette di mano, di abbracci, rende la conversazione fisica più appagante. Ma questo genere di dialogo, nonostante sia più vibrante, ha i suoi risvolti negativi: non tutti riescono ad esternare completamente il proprio pensiero, pensate alle molte parole non dette o dimenticate. Capita infatti, quando si è soli con se stessi, di soffermarsi a pensare e torna in mente quella tal frase, quella tal parola inespressa. Allora ci si ripromette di riprendere il discorso, di tornare sull'argomento alla prossima occasione; ma il ferro va battuto quando è caldo: dopo è difficile dargli la giusta forma. La conversazione orale implica anche una certa forma di linguaggio e di comportamento e se il tutto non degenera in un litigio, il dialogo è un piacevole scambio di confidenze, di consigli, di affettività. Il dialogo riempie l'esistenza così grama  dal punto di vista comunicativo: un tempo il miglior divertimento era fare salotto con amici, parenti, conoscenti, ora il nostro salotto è uno schermo di un televisore o di un pc dove siamo spettatori muti, fruitori che forse meditano con se stessi; pensate alle volte che ci interrompono e li scacciamo via seccati. I momenti di conversazione sono divenuti rari all'interno delle nostre famiglie, abbiamo perso il modo e fatichiamo non poco ad approcciarci persino con i nostri cari. Ancora più difficile è la comunicazione scritta, l'arte della scrittura che un tempo veniva esercitata a scuola anche lì viene abbandonata e vi sono tantissimi studenti che giungono all'università e non sanno come formulare uno scritto, sono impacciati persino nelle semplici frasi di uso comune. Mettere insieme un concetto di senso compiuto richiede esercizio e conoscenza della lingua, amore per le parole espresse in forma corretta. Tutto si è velocizzato e lo scritto ha assunto forme telegrafiche, impazzano sui social network parole siglate, frasi dimezzate e scorrette, la comunicazione è contenuta in scheletriche battute. 
   Allora come comunichiamo? M'immagino un popolo che per risparmiare voce mima i propri pensieri, molto meglio che accomodarsi e chiacchierare, e per lo scritto, due tre siglette telegrafiche che non impegnano la mente. Ma la comunicazione è importante, giunge il momento in cui bisogna interloquire, vivere in comunità comporta determinate esigenze e per quanto ci si voglia relegare in un mondo tutto proprio le situazioni di scambio verbale sono necessarie, come sono indispensabili le esternazioni scritte fatte in un certo modo che non offendano la nostra lingua d'appartenenza. 
   Allora riappropriamoci della bella comunicazione, scritta o orale: il dialogo in qualunque forma è emozione, è contatto, è unione. Impariamo a saper comunicare!

venerdì 15 febbraio 2013

A tutto c'è rimedio


Un piccolo racconto, una sfida: solo 1900 battute, e tutto per riflettere sul  prezioso dono della vita. Le difficoltà la rendono difficile, ma sinché lei esiste val la pena combattere.                         



                                                                      

   "Guarda c'è una stella nel cielo, è proprio una e brilla come un faro!" Lentamente alzò gli occhi: faceva fatica, veniva fuori da un gran brutto momento, aveva perso il lavoro e non sapeva come fare a comunicarlo alla donna della sua vita.
   Erano in macchina e lui si era fermato un attimo con una scusa qualunque. Aveva rallentato e aveva accostato al bordo della strada, la zona riservata alle soste d'emergenza. Aveva l'animo in tumulto: il suo capo l'aveva convocato proprio quella mattina, aveva una faccia seria, cupa e tergiversava. Erano giunte voci di una probabile chiusura della fabbrica, ma lui sperava che fossero solo voci. Le ordinazioni c'erano e ogni giorno lavoravano come matti anche oltre gli orari consentiti; spesso, spessissimo restavano in fabbrica sino alla mezzanotte. Tornava a casa stanco ma felice: lui lavorava ancora e con il clima d'incertezze conservarsi un'occupazione era divenuto un regalo da custodire. Le commesse si moltiplicavano: era un settore fiorente che non risentiva della crisi. Lui s'era appena messo un mutuo, quando era stato in banca gliel'avevano concesso: era operaio specializzato di una fabbrica fiore all'occhiello, un vanto per la nazione. E invece anche quel fiore era stato spazzato via dalla tormenta. Ma cosa era successo, non se lo spiegava e nemmeno aveva compreso cosa fosse accaduto.
   "Signor Terenzi, mi rincresce, mi duole forse più di lei. Ma... non so come dirglielo, da domani questa fabbrica chiuderà i battenti. Non si preoccupi, c'è la Cassa Integrazione, lo Stato non vi lascerà in miseria, dopo si vedrà, si vedrà. E' un brutto momento, mi creda; sarei voluto scomparire, ma non ce l'ho fatta a farmi fuori, sono un vigliacco."
   "Commendatore, cosa dice?Allora era vero, era tutto vero. Chi glielo dice a mia moglie, stiamo per avere un figlio. La crisi è arrivata pure qui." 
   La cassa integrazione, non sarebbe stata sufficiente, e poi, doveva cercare un nuovo lavoro; ma dove, dove? Questi pensieri gli martellavano la mente, erano tamburi a percussione e lui non sapeva come comunicarlo alla moglie.
    "Amore, sai perché brilla quella stella nel cielo?" disse lei, come a voler interrompere quel silenzio forzato e opprimente. "Ci ricorda che possediamo il dono della vita in salute. Oggi la mia amica ha avuto una spiacevole notizia, suo marito ha un brutto male, gli restano sei mesi di vita!"

domenica 3 febbraio 2013

La donna giusta


                                       

 

   Ho ritrovato anche in questo romanzo lo stile di Màrai, scrittore ungherese di culto, quello stile fluido e attuale, quello stile che incatena e non lascia spazio ad interruzioni: l’abilità di Màrai sta nel destreggiarsi fra i vari registri dei personaggi che offrono un quadro fedele del contesto narrativo. Il tutto, di volta in volta, è raccontato sotto forma di monologo rivolto a un interlocutore privo di voce, un ascoltatore paziente che sta lì a raccogliere le confidenze senza interferire.
   Il romanzo è stato scritto dagli inizi degli anni quaranta e poi ripreso nell’epilogo trent’anni dopo e riguarda una vicenda che va dagli anni venti fino all’inizio del regime comunista in Ungheria con uno scorcio sull’America degli anni sessanta. La storia è divisa in tre parti, la parte conclusiva è quella più moderna nel linguaggio e ci presenta un po’ la vita statunitense degli anni in questione quando la tecnologia aveva semplificato la vita del proletario che, ottenendo prestiti, poteva permettersi quei beni di lusso venduti dai borghesi. La vicenda, oltre che riguardare un triangolo amoroso: due donne si contendono lo stesso uomo, è incentrata sulla descrizione della classe borghese vista attraverso gli occhi di due persone appartenenti al mondo rurale ungherese.
   La scena si apre in un'elegante pasticceria di Budapest, è un pomeriggio e una donna, Marika,scorgendo il suo ex marito, Peter, confida all’amica le vicende del suo infelice matrimonio e dell’assoluta dipendenza dal marito, uomo austero e affidabile legato ai formalismi e alle consuetudini. Per Marika crolleranno le certezze nei confronti del marito, quando ritroverà nel portafogli di Peter un nastro viola accuratamente riposto; un lembo di nastro, testimonianza di una passione bruciante per un’altra. In un monologo ben costruito Màrai narra la vita matrimoniale dei due borghesi, la nascita e morte del loro unico figlio, l’importante amicizia di lui con uno scrittore che non abbandonerà questa storia fino alla fine e infine la rottura del matrimonio.
   Nella seconda parte è Peter a parlare, Màrai offre la possibilità al lettore di apprendere la stessa storia con gli occhi del protagonista di turno. Peter, uomo colto e raffinato, appartenente a una ricca famiglia borghese, toccherà argomenti più profondi: ricordi di famiglia, crisi della classe borghese soffocata da rigide convenzioni e tensioni fra le varie classi sociali sul rapporto uomo donna; un soliloquio che si snoda in frasi lunghe e ricercate impreziosite da eleganti metafore.
   Nel terzo monologo entra in scena Judit, la proprietaria del nastro viola, colei che farà fallire il matrimonio dei due coniugi dell’alta società; lei la plebea poverissima che viveva con la sua famiglia d’origine in una fossa a contatto con i topi, lei che per sopravvivere va a servizio presso la famiglia di Peter il quale s’innamora della serva, ma sarà una passione che nulla concederà se non con il matrimonio. Judit racconta al suo innamorato del momento, un musicista, tutta la sua storia sin dagli albori; racconta la vita dei signori che poi saranno suoi suoceri, descrive ogni particolare di quell’esistenza fatta di lussi e di sprechi, di beni materiali ma non spirituali, di divari affettivi che sfociavano nell’infelicità.  La lingua nella quale si esprime Judit è semplice, ma al tempo stesso colta e ironica, intrisa di quel sarcasmo mai banale frutto delle sue conoscenze borghesi: Judit imparò in fretta tutto il saper vivere.     
   Nell’epilogo Màrai fa parlare Ede, il musicista, colui che dopo essere sfuggito all’AVO (famigerata polizia politica del regime comunista ungherese) va in esilio a Roma, dove incontra Judit e vive con lei un’intensa storia d’amore. Da lei apprende la sua storia in una notte in cui lei si confida mettendo a nudo la sua anima; lui inizialmente credeva di aver scordato, poi la storia si ricompone come in un puzzle e gli torna in mente e la ripercorre ad un altro interlocutore mentre è in un bar di New York come barman.
   Le vicende di “La donna giusta”si sviluppano dalla Budapest degli anni quaranta attraverso l’Italia fino a raggiungere gli Stati Uniti e ripercorrono le tappe della vita dello scrittore che, per sfuggire al detestabile comunismo ungherese, visse in esilio per il mondo. Màrai anche in questo romanzo si cala perfettamente nei panni dei personaggi: due donne e due uomini di estrazione sociale differente e li fa parlare con sensibilità e chiarezza, avvincendo il lettore in ogni passaggio ben costruito e altamente particolareggiato.
   Il titolo ci porta a una riflessione, il compagno o la compagna è la persona giusta? Cosa è giusto: il sentimento o la passione, il matrimonio o l’amore?