venerdì 28 ottobre 2016

Impressioni di lettura

                                 


  Il titolo di questo libro è un bigliettino da visita sul tema portante del romanzo stesso: le ceneri rappresentano la distruzione, ciò che resta della combustione e in questo caso una vita cancellata, un passato doloroso che vive come una ferita nel cuore di chi resta, infatti la combustione arde nel ricordo e nell’anima. Elisabeth Gille, autrice di questo bellissimo libro, è la figlia minore della scrittrice Irène Némirosky, che in più occasioni ho avuto l’onore di presentare con le mie impressioni di lettura. E se da una madre eccelsa abbiamo gustato i suoi capolavori letterari, altrettanto in Elisabeth troveremo note armoniche di scrittura, un affresco descrittivo emozionante. In fin dei conti, “Un paesaggio di ceneri” è il proseguimento del capolavoro “Suite Francese” scritto dalla Némirovsky prima di essere deportata ad Auschwitz e se nel primo è narrata l’occupazione nazista in Francia, nel secondo libro la storia prosegue anche dopo la guerra.
   Il romanzo comincia con un NO categorico, un rifiuto che echeggia nel silenzio di un collegio: il clima lugubre sconvolge mentre le suore tentano di spogliare una bimba, Léa, dai suoi abiti di lusso e le strappano la bambola che stringe spasmodicamente a sé. L’operazione si rivela difficile, ma l’attenzione di Léa si sposta sulla camerata e su di una bambina dai grandi occhi azzurri, Bénédicte più grande di lei di due anni, ospite di quel collegio; sarà proprio lei ad occuparsi della nuova arrivata a insegnarle le regole di sopravvivenza: siamo in pieno  conflitto e i genitori affidano le loro figlie alle suore. Léa non comprende quel distacco e attenderà il padre per molto tempo; parlerà della sua esistenza gloriosa, del suo benessere: in fin dei conti lei ha solo cinque anni e si trova immersa in una dimensione che non le appartiene. La sua amica del cuore l’aiuterà a sopravvivere e la proteggerà in varie situazioni anche quando lasceranno quel collegio e diverranno quasi sorelle: il padre e la madre di Bénédicte adotteranno Léa, quando si renderanno conto che i genitori della bambina non faranno più ritorno essendo stati deportati ad Auschwitz. La protagonista proverà il dolore di essere stata abbandonata dalla sua famiglia che se avesse voluto, a parer suo, avrebbe potuto rifugiarsi in America; lei porterà nel cuore per sempre la ferita dell’abbandono e sarà una creatura fragile che cercherà consolazione nelle ferite procuratesi ad alcune parti del corpo. Smetterà di cercare i genitori, quando comprenderà gli orrori della guerra perpetrati nei confronti degli ebrei; vedrà filmati raccapriccianti sui lager e sulle cataste umane finite nei forni crematori. E a questo dolore devastante si aggiungerà nell’epilogo quello della perdita della sua amica del cuore.
   Elisabéth Gille, nel reale, al tempo della seconda guerra mondiale, essendo figlia di genitori ebrei, scappò con sua sorella maggiore aiutata da una tata e visse inizialmente in vari collegi. Le due sorelle potettero contare su di una rendita di tremila franchi al mese che l’editore della loro madre mise a disposizione attingendo dai diritti d’autore del famoso libro “David Golder”, pubblicato dalla Némirovsky a soli trent’anni. Le due sorelle con questi soldi vissero e studiarono e la figlia maggiore dopo cinquant’anni ricopiò il manoscritto “Suite Francese” e lo dette alle stampe, manoscritto che le fu affidato dal padre prima di essere arrestato; il copioso quaderno era custodito in una pesante valigia che trascinava assieme alla sorella minore. Elisabéth dovette rinunciare alla sua bambola per quella valigia, ecco perché in questo romanzo si fa accenno nella parte iniziale a una bambola strappata e gettata nel fuoco: il crepitio delle braci è il dolore della perdita non solo dell’oggetto ma di quei genitori massacrati ingiustamente. Essi si erano convertiti al cattolicesimo, ma la Francia che apprezzava la scrittrice non aiutò la donna e non le concesse mai la cittadinanza. Quel paesaggio di ceneri avrebbe potuto essere un prato verdeggiante.

martedì 25 ottobre 2016

Un addio

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   (oggi voglio proporvi un estratto a caso di un mio romanzo che racconta la storia di un ufficiale dei carabinieri, ma soprattutto porta il lettore alla vera storia: quella di Francesco figlio, un'introduzione ampia per conoscerne il genitore e poi si alzerà il sipario sul protagonista.)
  
   Giunsero così nel Salento, in un paesino ameno e tranquillo distante dal mare qualche Km. Tutta la costa pugliese è bagnata dalle acque e il Salento è la parte terminale lambita da due mari, con città costiere che s’affacciano sull’Adriatico e altre che dalla parte opposta sono bagnate dal Mar Ionio. Il paese dove si stabilì Osvaldo con la sua famiglia era nell’entroterra ionico, mare differente dall’Adriatico per la colorazione delle sue acque verdi e cristalline, con spiagge ricoperte di sabbia fine e biancastra.
   Essi presero possesso dell’alloggio militare a loro riservato che si affacciava, anziché all’interno della caserma come nel precedente, su di un viale alberato di una zona semi-centrale del paese.
   Flora era al settimo cielo, non avrebbe più avuto davanti ai suoi occhi i muri grigi della caserma bozzolo come l’aveva denominata lei e della quale prigione di seta si era sentita crisalide, questa volta c’era sotto la casa, situata al primo piano di un palazzo, una comune via ricca della sua quotidianità, di quelle vicende semplici che avrebbe osservato dall’alto del balcone magari per curiosare, oppure direttamente in strada quando avrebbe portato a spasso i bambini per i vicoli del borgo; perché in fin dei conti ciò che più le era mancato negli Abruzzi era il contatto con la semplice realtà giornaliera.
   Ben presto Flora s'integrò in quel posto, con il suo fare amichevole e disponibile conquistò tutti gli abitanti e anche coloro che inizialmente avevano avuto timore ad avvicinarla, per inferiorità sociale o per soggezione; si resero conto che la moglie del capitano con la sua umanità non faceva distinzioni di sorta, bensì apprezzava nella gente le loro virtù morali.
   Azzurra e Iris ogni mattina venivano accompagnate da un attendente  all’istituto di suore, dove frequentavano la scuola elementare una e la materna l’altra, rivelandosi ben presto delle bambine educate con grandi capacità d’apprendimento; i maschietti ancora piccini erano con la mamma o con la balia che affiancava Flora nella loro crescita.
   Osvaldo s'integrò subito nella nuova caserma, riscuotendo stima ed apprezzamenti, di lui ammiravano quell’autorevolezza pronta all’ascolto, quella determinazione partecipe: egli era l’esatto contrario del precedente capitano che incutendo terrore mal disponeva i carabinieri all’operato, facendoli detestare l’Arma e la scelta stessa di aver intrapreso quella carriera.
   Un giorno Flora incominciò ad accusare strane nausee seguite da vomito, inizialmente pensò ad un’indigestione, ma poi i conati si susseguirono anche nei giorni seguenti, allora la balia dallo strano nome spagnolo “Consuelo” che viveva gran parte del giorno in quella casa e più che tata era divenuta un’amica, manifestò il suo sospetto:
   “Signora, tu sei incinta! Nascerà una nuova creatura, qui in questa bella provincia salentina.”
   “Non è possibile!” obbiettò Flora “Mio marito in Albania a causa del tifo è divenuto sterile!”
   “Ma Flora,” continuò la tata “i medici non sono il Padre Eterno! Perché non andiamo dal dottore? Una visita non ti costa nulla!”
   Quel sospetto di Consuelo fu avvalorato dalla diagnosi del medico che dopo la visita fece le sue congratulazioni: “Faccia tanti auguri anche al capitano per il quinto figlio in arrivo! In effetti… il mio collega, lì in Albania, non ha sbagliato diagnosi, l’infiammazione ai testicoli provoca la sterilità. Evidentemente… il buon Dio vuole offrirvi un altro dono!”
   Osvaldo, nonostante fosse in quel periodo quasi sempre di malumore, accolse la notizia con molta gioia e fu allora che ricordò nuovamente il volto del monaco che con il suo suggerimento gli aveva salvato la vita.
   “Flora, quel frate che mi è apparso al porto di Durazzo è San Francesco di Paola! L’ho riconosciuto fra le immaginette che custodisci nel tuo libro di preghiere. Sono certo che era Lui! Flora, i suoi bellissimi occhi sono ancora impressi nel mio cuore! Se nascerà maschio, si chiamerà Francesco!”
   “Anche se sarà femmina avrà lo stesso nome, ma al femminile, San Francesco di Paola è il santo della carità, il suo amore per noi va premiato non solo con il nome, ma anche con l’eterna devozione a Lui ed a Dio che l’ha inviato come messaggero!”
   Questa era una precisa allusione nei confronti del marito che, anche essendo credente, disdegnava le chiese per via dei loro ministri che riteneva ipocriti approfittatori. (continua)

venerdì 14 ottobre 2016

Taciuta verità

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    (questo racconto l'ho scritto anni addietro, quando ancora l'argomento omosessualità era discriminante e pungente)
   


   Una nuvola di raso e perline luccicanti occhieggiava nella penombra della camera che vedeva il nuovo giorno. Rosa osservava il sontuoso abito e un groppo in gola le faceva detestare quello sfavillio ingannevole come la sua partecipazione. Fra un po’ avrebbe preso il via la musicalità del giorno più importante, se tale fosse stato… anche per lei. Si agitavano pensieri in tumulto, sensazioni che non aveva osato confidare e che l’avrebbero schiacciata, mettendola nel dileggio familiare. Non aveva osato rivelare la sua vera natura, quella che aveva scoperto di possedere e che avrebbe causato uno sconvolgimento.
   Gli amori giovanili nascono anche sui banchi di scuola e Rosa era stata corteggiata dal primo della classe, Ivan, che si era proposto di aiutarla nelle versioni di greco così ostiche per lei. Un ragazzo educato che aveva ricevuto la piena approvazione dalla mamma di Rosa.
   “Mamma quella lingua morta, è un vero tormento.” si lamentava, e di rimando sua madre: “C’è Ivan, lo sai quant’è bravo!” divenne un membro di quella famiglia e la ragazza subì anche la sua corte.
    Nacque così un fidanzamento, approvato da tutti, che si protrasse nel tempo, per via della giovane età di entrambi che dopo il liceo frequentarono anche la stessa facoltà. I giorni si susseguirono in un crescente di vicende e di emozioni; nei pensieri di lui lo studio e Rosa che amava alla follia; in quelli di lei anche l’amore quieto per lui.
   Dopo la laurea Ivan iniziò il praticantato nello studio del padre avvocato, mentre Rosa in quello di un amico di famiglia. Ada, segretaria efficiente, dal volto mascolino, ma con un aspetto intrigante, strinse subito amicizia con Rosa, elargendole spiegazioni e consigli.
   Rosa era inquieta: da quando frequentava quello studio, la sua vita interiore era mutata. Non riusciva a capire cosa fosse e la sua pacatezza aveva fatto posto all’irrequietezza che si acuiva tutte le volte in cui Ada le si rivolgeva con il suo ammiccante sorriso.
   “Vorresti accompagnarmi alla sfilata di moda questa sera?” cantilenò Ada, dopo vari mesi. “Andiamo via da sole, il tuo Ivan farà altro!”
   Erano davanti al portone di casa di Rosa, la serata si era svolta bene, la nuova collezione aveva riscosso successo, quando Ada l’abbracciò  e le cercò le labbra.
   “Vieni da me!” sussurrò “Ti farò conoscere l’amore, conosco la tua inquietudine!”
   Cominciò una relazione nascosta che portò ad alte sfere Rosa, la quale visse la sua duplice vita all’insaputa di tutti. Il fine settimana fra le lenzuola con Ivan, al quale concedeva una spenta passione, e nei giorni lavorativi fra vari espedienti si appartava con la segretaria. Quella celata passione le apparteneva a tal punto che bramava Ada, come mai aveva desiderato il suo futuro marito. Ada era un’amante eccezionale, romantica, premurosa e sapeva come accenderla di desiderio.
   “Ti rendi conto Ada, abbiamo fissato la data delle nozze e incominciano fra un po’ anche i preparativi. Sono nell’inferno, ti desidero e mi detesto!”
   Rosa conosceva il moralismo della sua famiglia, i loro preconcetti, e continuò con la sua farsa che la stava uccidendo.
   Il giorno delle nozze era giunto, fra un po’ quella casa si sarebbe animata per lei che aveva il cuore in lutto.
   Non se la sentiva di giurare sull’altare, non poteva offendere la sacralità del luogo. Era una codarda: non aveva la forza di rivelare la verità, solo un gesto estremo l’avrebbe salvata. Uscì di corsa, ancora tutti dormivano e si diresse all’auto, entrò e mise in moto raggiungendo l’abitazione di Ada, luogo deserto; scese dalla sua vettura, tappò il tubo di scappamento, entrò nuovamente, bloccò ermeticamente i finestrini dell’auto, accese il motore e poi attese che il sonno eterno le desse la libertà.


   



   

martedì 4 ottobre 2016

Strappare il cuore

                   
                              Risultati immagini per amore strappato

   Crediamo che le storie, per noi inconcepibili, siano dilatate per essere più accattivanti e che ciò che ci raccontano, intrecciato da misteri, sia inverosimile o perlomeno pensiamo che le vittime dell' ingiustificato rancore abbiano delle colpe. 
   Quando assistiamo a programmi televisivi che riuniscono famiglie dopo un lasso di tempo inaccettabile, pensiamo che sia stato costruito e che non potrebbe mai essere possibile che, nella stessa regione o città, vivano figli o genitori che s'ignorano fra loro,  continuando la loro vita come se il proprio sangue non esistesse. 
   Poi veniamo a contatto con le reali persone che ci raccontano il loro dramma, ce ne fanno partecipi e allora ci rendiamo conto che, anche senza un motivo importante, vi sono figli e genitori che per presa di posizione o cocciutaggine, decidono di non far parte più della loro famiglia d'origine, troncando ogni rapporto per sempre.  
   Infine il tormento ha una risoluzione, dopo anni e anni di attesa, di speranza e di determinazione sofferta, uno dei due parenti stretti fa il primo passo e tutto torna a brillare: si cancellano le incomprensioni, i malintesi, le assurde invettive, tutto si appiana; basta il ritrovamento di una lettera mai pervenuta o di una maturità tardiva a far cadere le barriere, a far riabbracciare quelle persone che si ignoravano da anni. 
   Ma a quei fili che si riannodano, mancano i fili colorati della vita non vissuta insieme, dei momenti di festa solenne, di quelle celebrazioni che procurano emozione, di partecipazione alla vita nei suoi progressi e combattimenti vari. Resterà sempre un vuoto antecedente che non sempre ha risposte, e chi si era intromesso per spezzare quei fili dovrà fare i conti con una coscienza che non possiede e tenterà il possibile per far rivivere l'inferno che tanto lo soddisfaceva.
   Io conosco una situazione del genere e ogni volta che mi veniva raccontata con immane mestizia, provavo disorientamento e sinceramente dubitavo, come se la vittima che stava patendo avesse almeno uno scheletro nell'armadio. E invece era solo godimento di chi metteva i bastoni tra le ruote per gelosia di non occupare il primo posto. 
   Come può un figlio/a a farsi condizionare così? Come può strappare dal cuore tutto il bene ricevuto e soprattutto l'amore del genitore? Come può dimenticarne le lotte, gli impegni, i sacrifici, l'amore smisurato ricevuto? Un genitore ama a tal punto che, anche dopo un muro di silenzio inconcepibile, silenzio in cui si era strappato l'anima e avrebbe voluto farla finita, basta un cenno e va e non fa domande: ciò che conta è il ritorno di chi si era perduto!