giovedì 26 ottobre 2017

Il primo ricordo



                      

                                                 
                   

    Andare a ritroso nel tempo e soffermarsi nel primo ricordo che scandisce l’inizio della nostra esistenza. Tutto secondo la memoria parte da quell’evento, che assieme ad altri prendono corpo in un fotogramma a sbalzi, che diviene sempre più cronistoria di noi stessi.
   Quando nasciamo, nonostante sia un momento memorabile, non lascia traccia nella memoria: non siamo in grado di richiamarlo dai meandri celebrali, che pur conservandone il passaggio non riesce a restituircelo in immagini da rievocare. 
   L’evoluzione dei primi anni di vita contiene momenti delicati e fondamentali, ma pochi riescono a ricordare i loro primi passi, i primi sapori graditi o le prime parole espresse di senso compiuto. Ci sono degli anni bui che non ci appartengono e ne siamo a conoscenza tramite i nostri genitori o chi per loro ha fatto le veci. La vita per noi incomincia da quel primo ricordo che resta il più prezioso o il meno bello, dipende dalle situazioni vissute.
   Io non avevo ancora quattro anni, per essere precisi mancavano cinque mesi al compimento dei miei quattro anni quando nacque mio fratello, la mia vita comincia da quell’evento che ricordo con dolore e tristezza mista a una strana emozione che sento ancora tangibile.
   Abitavamo in una piccola casa e c’era luce naturale nelle camere, presumo fosse giorno, non ho mai approfondito questo particolare e ora non posso più farlo: i miei genitori sono scomparsi già da tempo.
   Nella camera, che aveva una finestra laterale, c’era un letto centrale sul quale a sinistra era adagiata la mia mamma ricoperta da un lenzuolo bianco come il suo viso, contornato da capelli neri sparsi sul cuscino. Sempre a sinistra c’era una sagoma, non so dire a chi appartenesse, quello che so è che mia madre sofferente si lamentava e reclinava il capo per la spossatezza. Io la osservavo, per quanto tempo … non ricordo, come non so come fossi vestita: ero piccina.  Ma il ricordo che percepisco ancora è la tristezza che mi pervadeva nell'osservare la mia mamma: quella sofferenza mi apparteneva e mi penetrava il cuore.
   Questo ricordo doloroso si tramuta in qualcosa di diverso: compare mio padre. Ricordo il suo sorriso e il suo richiamarmi a uscire dalla stanza, ci appartammo in cucina e ci sedemmo intorno ad un tavolino d’emergenza, una sedia, per giocare a carte: mio padre mi intrattenne con il gioco delle carte napoletane. Presumo che, anche non avendo quattro anni compiuti, sapessi riconoscere le figure e provassi interesse per quel gioco, tanto da non tornare nella camera dove stava nascendo mio fratello, proprio così: il parto avvenne in casa con l’assistenza di un’ostetrica parente.
   Di quella giornata non so più nulla, non ricordo d’aver sentito il vagito di mio fratello, né cosa successe dopo o nei giorni seguenti, quindi non posso rimembrare la crescita del fratellino o i suoi primi momenti: c’è un vuoto, uno sbalzo ad altri episodi.
   Ora riesco a rievocarlo, anzi lo faccio già da molto, ma per buona parte della mia esistenza, quell’inizio temporale della mia memoria mi disturbava e mi procurava tristezza e preoccupazione per il parto, al quale associavo il volto diafano della mia mamma.
   I ricordi che segnano, s’imprimono anche in tenerissima età: i dolori hanno la precedenza sulle gioie!  
    Il terrore del parto era radicato in me anche in seguito, la vita poi mi ha donato la gioia d’essere mamma, ma per un insorgere di complicazioni non ho goduto della partecipazione in diretta della nascita: i miei figli sono venuti al mondo con taglio cesareo, quasi che la natura temesse di farmi provare le stesse sofferenze alle quali avevo assistito in diretta … precocemente.    


venerdì 13 ottobre 2017

Fantasiosi desideri

                         Risultati immagini per desiderio                          



   Scendeva lenta come fumo avvolgente, era candida e uggiosa e si appiccicava alla pelle; rendeva umidicci gli indumenti, penetrava nelle ossa e bagnava i riccioluti capelli di Ely. Che strano diminutivo, gliel’avevano coniato da piccola per guadagnare tempo; non Eleonora, troppo lungo, cominciò con un Ele, poi si tramutò in Ely e a distanza di anni, anche ora, che di piccolo aveva solo la statura, sempre e solo per tutti Ely.
   Lei amava la campagna lucchese al sorgere del sole, non le importava che in quel periodo salisse la nebbia; il medico le aveva consigliato di restare al caldo il mattino presto: la sua artrite aveva bisogno di un ambiente caldo e l’umidità le era deleteria.
   Ma Ely soleva penetrare nella natura anche con scarsa visibilità, i fumi nebbiosi la invogliavano a immergersi nei suoi pensieri che cercava come una sorta di panacea; ecco perché usciva da sola quando tutti dormivano: desiderava scavare nella mente quel tempo passato che era solo suo e quel luogo le conciliava  le rimembranze. Immaginava, anche, che una fortuita conoscenza potesse emergere dalle dense brume per ridonarle l’entusiasmo della passata gioventù. Se l’avesse saputo suo marito, Augusto, l’avrebbe derisa. “Ma che cerchi ancora?” le avrebbe detto con aria canzonatoria “Ancora le fregole giovanili!”.
   E l’avevano assorbita tutti la sua gioventù! In primis il marito che se l’era portata via quand’era ancora un’adolescente. Oh, non le aveva mai fatto mancare nulla, d’accordo! Ma la vita coniugale, con le sue priorità e responsabilità, non le aveva donato la spensieratezza delle uscite pazze con gli amici, delle occhiate furtive al ragazzo di turno, delle cottarelle che fanno vibrare il cuore. E la musica, quei balli che lei amava, quel progettare le serate per recarsi nelle discoteche, che furoreggiavano quando lei era fuggita con Augusto che le aveva promesso, anche, una vita movimentata e mondana e, invece, di movimentato c’erano state le sue gravidanze, una dietro l’altra e la gioventù se n’era andata appresso ai figli, cinque per l’esattezza.
   Ripensava ai suoi momenti di vita che ripercorreva a ritroso in un excursus particolare: saltava da un episodio all’altro e li collegava fra loro, anche se avevano una datazione differente, lei li associava. In fin dei conti non aveva lamentele da fare, il marito era sempre stato un gran lavoratore, forse troppo: il lavoro prima di ogni cosa, quanta solerzia e attaccamento, tutto per le esigenze familiari. Erano una famiglia numerosa che assorbiva, come una spugna, i guadagni del suo capo e lui il timoniere della barca remava con più vigore. I figli crescevano in buona salute, vivacissimi marmocchi che la sfinivano da mattina a sera; lei, Ely, era uno scricciolo e le sue povere membra erano spossate per il gran da fare; la voce, poi, s’era fatta roca a furia di richiamarli al dovere. Crebbero quei rampolli, cinque figli maschi che divennero prestanti come dei bodyguard e lei li guardava dal basso in alto; la vezzeggiavano, la circondavano di coccole ma al tempo stesso erano esigenti. Una prelibatezza di qua, un’altra di là, non un pasto normale, ma richiedevano fantasia culinaria. Poi c’erano gli indumenti, sempre tanti, jeans magliette, polo, camice, ora anche abiti di rappresentanza: un paio di loro s’erano impiegati negli uffici Statali, che aveva da lamentarsi dunque?
   Era stanca, stanca di pensare sempre e solo ai suoi uomini, non aveva un suo spazio, una sua realizzazione: aveva rinunciato agli studi che amava e al desiderio di scrivere; era corsa appresso all’amore, non sapendo che l’amore in cambio esigeva delle rinunce. Da qualche tempo, però, aveva preso l’abitudine di uscire presto il mattino, proprio per non dar conto a nessuno; la sua famiglia, anche se era tutta adulta, aveva orari differenti e se la ritrovava a casa a tutte le ore.
   Si spazientì quella mattina: il suo cantuccio preferito nella radura, al riparo del leccio, era occupato da una distinta signora; dalla sua postazione la osservò minuziosamente, non potendo meditare su se stessa lo fece per la sconosciuta di classe. Abiti firmati e accessori altrettanto costosi, un portamento elegante e giovanile, forse dimostrava meno dei suoi anni e vista la cura dei particolari, convenne che non ci voleva poi molto a rendere l’insieme più gradevole. La vide sedersi all’ombra del leccio e portarsi le mani al volto per lo sconforto, la sentì piangere a singhiozzi e la disperazione che colse nei suoi gesti, le procurò sincero rincrescimento.
   All’improvviso la signora si alzò e le passò accanto, Ely la riconobbe, l’aveva vista sulle pagine della sua rivista preferita, era una giornalista-scrittrice di discreta fama, quindi una donna realizzata e di successo, niente a che vedere con i suoi problemi di donna soffocata dal proprio ruolo.
   Ripensò spesso a quella signora, a tal punto da cogliere i lati positivi della sua vita, concluse che non è il ruolo a donare la felicità. Sperava d’incontrarla ancora, le avrebbe parlato, avrebbe osato, confidava nella complicità della nebbia. E la sconosciuta era nuovamente lì, al riparo del leccio, maestoso albero a forma di ombrello; Ely si accostò e con voce dapprima stentata, poi più chiara le parlò. La donna non s’infastidì, anzi s’illuminò quando seppe che era un’assidua lettrice della sua rubrica, ma quella luce durò poco: si spense quando il bip del messaggio sul cellulare le impose di leggere il breve comunicato.
   “E’ finita!” esclamò
   “Cosa!”chiese Ely, facendosi coraggio.
   “Non ho nulla. Non ho un marito, mi ha lasciato tempo fa e l’unica figlia se n’è andata per sempre. Speravo che ci ripensasse e invece. Ho costruito un castello di carta!”
    Ely, come le piaceva ora il suo nomignolo, scordò le sue fatiche e i suoi strani desideri: lei aveva un uomo, anzi sei e tutti l’amavano e non l’abbandonavano. In una frazione brevissima di tempo, considerò i lati positivi della sua esistenza e si sentì mortificata di essere dovuta giungere alla conclusione attraverso il dolore della donna che lei stimava. Ma la vita segue strane traiettorie e strane coincidenze, quell’incontro stava per far nascere un’amicizia che avrebbe giovato a entrambe. Ciò che mancava all’una avrebbe compensato l’altra, uno scambio reciproco a fin di bene.
   Fu Ely a prendere l’iniziativa.
   “Posso invitarla a pranzo?”