giovedì 31 ottobre 2013

Credere, sempre credere.

                                          




   "La forza di un sogno", fiction andata in onda in due puntate, uno sceneggiato che ho seguito perché racconta la storia di un uomo dai profondi valori umani, un uomo a capo di un'azienda che divenne importante a livello mondiale, l'azienda è la mitica "Olivetti" industria leader nel settore macchine per scrivere. 
   Attraversiamo un momento difficile, la crisi imperversa e ci soffocano da tutti i fronti, l'economia stenta a riprendere la sua corsa, non c'è lavoro e le spese sono altissime, ora mi chiedo se Adriano Olivetti fosse vissuto in questo periodo delicato, avrebbe ugualmente creduto nelle sue idee, avrebbe avuto il coraggio di andare avanti? 
   Quando si è determinati e si ha dentro quel fuoco innovativo, forse si mette da parte il timore e l'unica certezza è quella della realizzazione per il bene comune: Adriano Olivetti era sempre dalla parte del lavoratore. Dopo il conseguimento della laurea in ingegneria, il padre Camillo Olivetti non lo fece entrare in fabbrica dalla porta principale, ma volle che suo figlio imparasse il mestiere dal basso, facendo gavetta. Stando a contatto con gli operai, maturò in Adriano l'idea che il posto di lavoro avrebbe dovuto essere più stimolante e con servizi ricreativi e culturali. Successivamente, quando divenne direttore modificò la struttura della fabbrica facendo costruire all'interno la biblioteca, l'asilo, il cinema, migliorò così la qualità di vita della forza lavoro; offrì un salario più congruo e assistenza alle famiglie, progetto che mantenne anche quando aprì una fabbrica di calcolatrici a Pozzuoli. Il marchio Olivetti era conosciuto in tutto il mondo: nel 1955 l'azienda contava 55.000 dipendenti; il talentuoso Adriano fu vittima d'invidia da parte della concorrenza non solo nazionale: fu, infatti, spiato dai servizi segreti americani.
    Adriano aveva idee democratiche e sosteneva che il profitto aziendale andava reinvestito per il bene della comunità, era infatti contrario al capitalismo. Ma fu anche un uomo di cultura: si interessò di letteratura, filosofia, arte e Urbanistica; divenne sindaco ed ebbe due seggi al Parlamento, la politica, comunque, non lo allontanò dalle sue teorie a favore della classe lavoratrice. Egli sapeva interpretare l'animo umano e le aziende crescevano perché tutto era pensato per la produttività: un lavoratore appagato da un salario adeguato e da condizioni lavorative idonee produce e l'azienda prospera. Ai tempi nostri il merito non è riconosciuto, i salari sono in ribasso, vi è sfruttamento della forza lavoro e le famiglie dei lavoratori non sono considerate, Adriano Olivetti offriva anche assistenza alle famiglie, era un uomo che andava controcorrente.
   Alla sua morte, purtroppo prematura, riecheggiarono le sue parole: "Date un letto e una coperta a chi non ce l'ha, offrite un pasto caldo e un lavoro a chi non ce l'ha!"  

giovedì 24 ottobre 2013

Impressioni di lettura

                                                                  

                                                                                                     

   Se non fosse esistito il web, non avrei mai letto questo capolavoro e non mi sarei arricchita di questa splendida lettura. Il libro intitolato “Irminsul”, edito da Artestampa e presentato solo nel Ravennate, è passato inosservato e non appare in catalogo; un romanzo pregevole che non ha avuto la fortuna d’incontrare un editore che gli abbia dato il giusto risalto, io ne sono venuta a conoscenza tramite un blog di scrittura.
   Non conoscevo Romana Morelli, autrice di quest’opera e di altre pubblicazioni, e devo dire che leggerla vuol dire farsi catturare dalla sua penna raffinata, colta, fantasiosa, fluida e coinvolgente. Dalla prima pagina si entra nella storia, un noir poetico che non stanca il lettore con una trama prettamente giallistica, ma regala una vicenda accattivante che andrebbe benissimo per una sceneggiatura di un film: mentre leggevo, infatti, ho scordato ogni cosa e le immagini prendevano corpo, come se fossi stata in una sala cinematografica comodamente seduta in prima fila.
   Il romanzo s’intitola “Irminsul”,nome che in antico sassone significava grande pilastro e la leggenda ci narra dei riti sacri compiuti dai Sassoni dinanzi al tronco di un’imponente quercia, Irminsul appunto. La quercia rappresentava per quel popolo la forza che collegava il cielo alla terra e al tempo di Carlo Magno di Irminsul ce n’erano parecchie. Il romanzo prende il nome da quello leggendario della quercia perché la vittima era per la sua donna l’Irminsul, ossia la forza, la potenza, il mito.
   La vicenda si svolge a Ravenna, amata città dell’autrice, e ha per sfondo il fiume, la natura dipinta come in un quadro impressionista, le brume che ammantano l’atmosfera e creano quel mistero tipico di un delitto che si consuma nell’orto di Otto, la vittima rinvenuta con un forcone nel petto, uomo dal fascino irresistibile, un ingegnere nucleare di origini tedesche, ex spia russa. Ma la storia punta i riflettori anche sull’affascinante giovane moglie di Otto, Dorothy di origini tedesche, laureata in lingue orientali, che in Italia dà lezioni di tedesco a Paola una ragazza che sta preparando la tesi su Kant. Otto e Dorothy si sono conosciuti al tempo della caduta del muro di Berlino, amore a prima vista, e dopo un periodo di spostamenti, giungono in Italia e scelgono di abitare nei pressi del fiume per via del clima che ricorda quello tedesco. Lei non è perfettamente al corrente dell’attività di spionaggio del marito e accetta di buon grado le sue lunghe assenze, fiera soltanto di essergli accanto e di amarlo.
   Intorno ad Otto ruotano altri personaggi, che conosceremo successivamente quando il commissario Minghetti, il protagonista, svolgerà le indagini in giro per l’Europa; sono amici della vittima, anch’essi ingegneri. In ultimo anche un cugino contribuirà a far chiarezza sulla vittima che essendo stata adottata cercava ancora il padre biologico: interessante è la narrazione sull’infanzia travagliata di Otto e sulle successive rivelazioni che aggiungono un tassello nuovo, uno scoop ignoto anche a Dorothy.  Nasce una forte attrazione fra la fascinosa vedova e il commissario che non è il solo a subirne la malia: gli amici di Otto ne erano attratti ma senza speranze. Dorothy, oltre che giovane e bella fisicamente, è anche interessante come persona: è colta, intelligente, coinvolgente e ascoltarla vuol dire farsi catturare dalla sua voce gentile, pacata, seducente.
   Il finale a sorpresa ci coglie impreparati: ci consegna un colpevole insospettato, un finale di un intrigo narrato con estrema bravura, tanta passione e con un valore aggiunto, riferimenti di spessore storico e culturale. In definitiva un emozionante romanzo noir per tutti.








venerdì 18 ottobre 2013

Odio represso

                           

   Dette una spinta, lanciò un urlo e lui uscì con una manina sul visetto: pareva, volesse proteggersi dalle brutture del mondo. Un fagotto, un pulcino dalla pelle chiara e con una spruzzatina di peli biondissimi sulla testa.
   "Ma che bellino, pare un topolino. Speriamo che cresca forte come me." diceva il suo papà che aveva atteso la nascita fuori di casa, dinanzi all'uscio, facendo passi frenetici sul selciato.
   "Franz, è il nostro primo figlio; quanto mi ha fatto soffrire!"
   "Dovrà rigar dritto!" rispose il marito," Non mi piacciono le mammole con i pantaloni."
   "Ma Franz è solo un neonato, si vedrà!"
   "No, no è meglio aver le idee chiare, per l'educazione ci penserò io!"
   "Ma non lo abbracci, vieni, sono certa che appena lo prenderai, penserai solo a coccolarlo."
   Un bell'esordio non c'è che dire, prospettive di un futuro rigido per Hans che imparò ben presto a mettere da parte le lacrime; sua madre nulla poteva contro la collera del marito, uomo inflessibile temuto dai detenuti del penitenziario, dove svolgeva il lavoro di guardia carceraria.
   "Bambino mio, tuo padre a modo suo ti vuole bene, lo fa per educarti. Hai visto il cagnolino, se non lo sgridiamo non ubbidisce. Tu imparerai e sarai bravo."
   Hans covò dentro di sé tanta rabbia repressa che all'età di diciassette anni si arruolò volontario nel corpo d'armata dell'esercito tedesco, suo padre ne fu fiero.
   "Fa strage di buoni a nulla!" gli disse "Prima o poi ci scappa una guerra e tu sarai pronto a far giustizia d'incapaci!"
   E la guerra ci fu, un conflitto che oltre alle mire espansioniste del suo fautore aveva come obiettivo perseguire i buoni a nulla della società, incapaci da sopprimere secondo la mente malata del dittatore capo, uomo prepotente e crudele privo d'ogni briciolo di umanità, uomo razzista, antisemita e despota.
   Hans lo adorò: era colui che gli dava la possibilità di scaricare la rabbia repressa sugli immeritevoli della società, come aveva detto suo padre. E si distinse in soppressioni di massa: dove lui giungeva con il suo sguardo freddo e glaciale ogni vita era cancellata, divenne ben presto il più temuto dell'esercito tedesco.
   Sua madre non sapeva ancora del cambiamento, non sapeva che il suo figliolo era divenuto un carnefice di gente innocente di qualunque ordine e grado.  E Hans non sapeva, a sua volta, che avrebbe dovuto giustiziare proprio la madre, ebrea sin dalla nascita;  la madre che prima di cadere sul selciato gli trafisse il cuore con il suo sguardo puro; la madre, l'unica creatura che lo avesse mai amato.
   Allora... dopo, aspettò il padre dinanzi all'uscio di casa e lo freddò con la pistola d'ordinanza, poi si sparò egli stesso un colpo al cuore.


(Un mini racconto che mette in luce l'educazione sbagliata e autoritaria impartita da genitori privi di cuore, genitori che a loro volta hanno forse subito violenze psicologiche. Menti malate che vanno allontanate dai loro figli. Un tempo era difficile ribellarsi, ora ancora lo è, ma con gli strumenti attuali qualcosa si può e si deve fare per interrompere la spirale di violenza: abbiamo il dovere di consegnare alla società un' umanità giusta che sappia amare.)


martedì 15 ottobre 2013

Beata incomprensione

                  

   Di cosa si può parlare: sembrerebbe che tutto sia stato affrontato! Il detto e ridetto forse potrebbe non interessare, capita anche a me di trovare un titolo e di pensare che quell'argomento lo si conosca in molte salse. Già! E' un po' come il cibo: se non cambiamo luogo, assaporiamo gli stessi menù ma con la variante della creatività e capacità di legare i sapori. Allora verrebbe da dire che la scrittura, più o meno, è sulla stessa lunghezza d'onda: ha bisogno oltre che di ingredienti giusti, anche di armonia lessicale e di creatività unita all'originalità, a quel pizzico d'ironia pronta a sdrammatizzare e al tempo stesso a valorizzare un evento particolare. Ma la scrittura è anche sentimento, passione, emozione il tutto condotto con un trasporto sempre diverso. Pensateci un po', lo chef appassionato ci mette l'anima e dà valore ai suoi piatti con emozione e passione e lo scrittore vero sente dentro di sé identiche sensazioni che intende trasmettere al suo sconosciuto lettore. 
   Eppure nonostante queste capacità, questa distinzione, c'è chi riesce a catturare l'attenzione e chi invece resta nell'ombra, una sorta di corsia preferenziale per alcuni; come se il trovarsi in un dato momento in un certo posto, porti poi a dar luce al suo operato.    C'è anche chi non ha quella verve che si fa strada da sola, quella sfrontatezza tipica della simpatica faccia da canaglia che punta i riflettori su di sé e sul suo operato. 
   Poi vi è la categoria di coloro che credono di saper preparare un buon piatto e ne hanno anche la convinzione, riescono anche ad imporsi sul mercato: la fortuna vuole che trovino degustatori con assenza di palato, persone abituate da tempo a non saper riconoscere la qualità. 
   Stessa cosa dicasi per quei scrittori privi di talento che pensano di essere dei grandi letterati, ma lo pensano a tal punto che considerano i Grandi, che hanno fatto la storia, degli ermetici abbarbicati alle loro chiusure mentali.  
   L'ignoranza pone dei veli alla comprensione e l'immodestia altrettanto! Non sapersi leggere dentro fa parte di quella mancanza di comprensione, occorre avere orecchie attente alle probabili critiche che da qualunque pulpito giungano, sono sempre costruttive. Forza, la porta è aperta, sono in campo!

martedì 8 ottobre 2013

Per non dimenticare

                       


   (Un brano tratto dal mio romanzo: "Un addio senza ritorno".  Poiché ricorre il cinquantenario della tragedia del Vajont, vi propongo lo stralcio riguardante l'evento.)

   Francesco stava per congedarsi, quando in Italia accadde un evento tragico che causò la morte di duemila persone, un evento paragonato all'effetto devastante di due bombe atomiche. 
   Nella notte fra il 9 e il 10 ottobre del 1963 una frana, staccatasi dal monte Toc, precipitò nel lago artificiale formato dalla diga del Vajont che sbarrava le acque del torrente omonimo; la diga resistette, ma l’acqua dell’invaso, un'onda di proporzioni gigantesche, tracimando investì gli abitanti di Erto, Casso, Longarone e Castellavazzo, Longarone andò completamente distrutta. 
   E pensare che quella tragedia si sarebbe potuta evitare: quello non fu un disastro naturale, ma una catastrofe causata dall’uomo e dalla sua megalomania. 
   Il progetto iniziale, dello sfruttamento delle acque del Vajont per produrre energia, nacque nel 1923 e prevedeva la costruzione di una struttura alta 130 m. con un invaso contenente 33 milioni di metri cubi d’acqua, col passare del tempo tale progetto subì delle trasformazioni sino a quintuplicare la capacità d’acqua del lago artificiale. Non furono tenute in considerazione le preoccupazioni degli abitanti che ben conoscevano la zona come terra franosa e instabile. Una giornalista nel 1959 dette voce a quella gente denunciando la situazione, ma non fu ascoltata e subì anche un processo per diffusione di notizie false e tendenziose. Nel 1960, tre anni prima del disastro, ci fu una prima avvisaglia della tragedia a venire: un’enorme massa di terra precipitò nel bacino sollevando un’onda alta 10 m. che non causò danni. Furono avviati degli studi per determinare l’eventuale possibilità di una frana della zona circostante, ma i risultati non furono comunicati alla stessa commissione di collaudo che aveva in precedenza approvato i progetti e i lavori, per cui non furono richieste ulteriori indagini geologiche. 
   Se ne parlava fra di loro giovani militari, avevano raccolto qualche voce di quelle rimaste e seppero dell’opposizione della gente alla costruzione della maestosa diga, ma come spesso accade l’interpretazione del popolo è soffocata da coloro che credono di sapere  ciò che è giusto, ossia quello che è idoneo per il loro arrivismo e per la loro megalomania. Con Francesco c’era anche Salvatore che dinanzi a quella tragedia aveva perso la sua sicurezza spavalda, il suo ottimismo e quel suo buon umore che lo caratterizzavano. Francesco notò che l'amico aveva bisogno del suo sostegno, la recente perdita del fratello gli aveva dato una maturità che non sospettava di possedere. ... (continua)