Si può passare buona parte di una vita nel disinteresse e nell’inedia? Si può trascorrere l’esistenza non
muovendo un dito e aspettando che le giornate scorrano sempre uguali?
Lorenza era nata in
una famiglia all’antica, ostile verso il mondo che giudicava gretto e
maldicente. Una fanciulla modello negli studi, una figlia perbene e consenziente
ai voleri paterni: la sua vita era improntata sull’assoluta tolleranza. Nessuna
personalità, il suo stile di vita era un reiterare sempre e solo: “Come vuoi,
papà – tu sai sempre tutto – io non ti lascerò mai – fuori c’è solo malvagità!”
Lorenza era cresciuta,
era ormai una giovane donna e nonostante frequentasse l’università, ancora pendeva
dalle labbra del padre, figura predominante e dominus
incontrastato in quella famiglia. La mamma era nell’ombra, succube e devota sposa che subiva le
angherie di un uomo accentratore dal comportamento anormale. Per Lorenza c’era
lo studio come svago e null’altro. Lei non conosceva le feste giovanili o le
uscite con gli amici, il suo orizzonte terminava tra le pareti domestiche; dopo
le lezioni universitarie solo e poi solo la dolce, si fa per dire, casetta. Mai
un rimbrotto, una contestazione, un desiderio diverso, la sua era una vita
scontata e sempre uguale che scorreva a tre: lei, la madre e il pater familias.
Terminò il percorso
di studi e conseguì la laurea con il massimo dei voti, all’università il suo
relatore le prospettò la carriera di ricercatrice.
“Le farò sapere!”
rispose con aria mite e rassegnata che equivaleva a un rifiuto.
“Tu … con un uomo!”
urlò suo padre. “Loro hanno in mente solo una cosa, quella cosa. Le ricerche le
farai qui!”
“Certamente papà,
hai ragione tu.” sembrava anestetizzata, un automa programmato.
Una parente zia,
che si recava da loro solo a capodanno per gli auguri del nuovo anno, prese
la ragazza in disparte e le disse che c’erano tanti concorsi per il suo titolo
di studio. Lorenza passò giorni a guardare quei bandi di concorso che la zia le
aveva consegnato, aveva in mente anche di cominciare a prepararsi, ma l’amato
padre la scoraggiò: “Anche lì ci sono gli uomini e loro hanno in mente solo
quello. Non ti serve lavorare, ci sono io per te!”
Gli anni passavano
e la ragazza non era più tanto giovincella, il fisico da minuto s’era
appesantito; il volto dalla pelle luminosa appariva spento e le pieghe
d’espressione erano accentuate; s’avviava per i quarantacinque anni e ancora
neanche l’ombra di un fidanzato; il desiderio di un lavoro ormai era sepolto in
un cassetto chiuso per sempre. La parente unica visitatrice era presa dallo
sconforto e a nulla valevano i suoi tentativi, in quella casa si respirava un odore stantio pregno di muffa e tutto aveva un colore grigiastro, come se l'assuefazione delle donne avesse spento ogni cosa.
Lorenza divenne
infermiera giorno e notte per quel padre che si ammalò di un male incurabile,
ma neanche la morte del genitore cambiò la situazione e la madre fu, poi, il suo punto di riferimento. La mente di Lorenza era plasmata a
quella vita fra le pareti domestiche che si svolgeva sempre piatta, uniforme e scontata: cibo
preparato dall’anziana madre e televisione sino a notte fonda di programmi
informativi. Quella zia aveva rinunciato da tempo a solleticare l’interesse
della nipote alla vita esterna e si rassegnò a malincuore.
Morì anche la mamma
di Lorenza che si chiuse nel suo dolore, sola nella casa-prigione trascorse
il suo tempo nella completa inedia davanti a una finestra, mangiando una volta
al giorno i pasti preparati dalla comprensiva parente che, pur essendosi arresa al comportamento della nipote, non smise mai di visitarla giornalmente. Il resto della giornata la donna lo trascorreva guardando qualche
programma televisivo nell’assoluta indifferenza e, a seconda delle esigenze, si affacciava sul mondo per assolvere agli obblighi improrogabili( spesso aveva chiesto alla zia di pagarle le bollette o di recarsi in banca, ma la parente tergiversava, trovava scuse pur di farla uscire almeno in quelle rare occasioni.)
Una vita sprecata,
una vita annullata, in nome di chi e di che cosa?
Aveva cinquant’anni
e un giorno insistentemente il campanello di casa suonò a più riprese; Lorenza
che guardava dallo spioncino timorosa, questa volta non lo fece e aprì quella
porta, come se quello scampanellio non programmato la risvegliasse dal suo torpore.
“Signora, io la
conosco; l’ho scorta sul balcone, abito di fronte. Mi aiuti, mio padre mi
violenta da anni, mi tenga con sé!”
La disperazione che
colse in quel volto le penetrò il cuore e stranamente non impedì l'accesso alla sua casa e la fece accomodare.
“Vieni cara, anche
tu vittima, come me. Io sono stata violentata nell’anima e tu nel corpo. Ci
aiuteremo a vicenda!”
Nessuno mai bussò a
quella porta, non supponevano che quella strana zitella desse ospitalità e le
due donne vissero per qualche tempo lontane dal mondo; anche la vicina di
Lorenza non s’accorse e la zia smise di farle visita, quando la nipote espresse il desiderio di voler imparare a cucinare, la zia interpretò quella volontà come una ripresa interiore e ne fu contenta.
Un giorno un “Vendesi” attirò l’attenzione di molti,
era il cartello dell’appartamento mai aperto al mondo.
p.s. (le storie possono essere inventate, oppure avere un fondo di verità abbellito da passaggi dell'autore; spesso nelle mie storie c'è un collegamento a ricordi passati, a storie ascoltate o a osservazioni silenziose sul comportamento altrui: tutto può essere raccontato. Questa è una storia vera, romanzata in alcuni passaggi, ma è realmente accaduta: ancora oggi nel terzo millennio vi sono donne succube che, nonostante la cultura odierna, non riescono a opporsi alla famiglia e ne subiscono le conseguenze.)
Una storia amara, e appunto in parte reale, che esplora con viva psicologia un universo per troppo troppo tempo desolato e vuoto.
RispondiEliminaUn caro saluto, amica mia.
Analisi perfetta, grazie cara per l'attenta lettura.
EliminaBuon week end
Un abbraccio
Annamaria