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giovedì 8 maggio 2014

Riflessioni di lettura

                                 


  Il titolo di questo libro è un bigliettino da visita sul tema portante del romanzo stesso: le ceneri rappresentano la distruzione, ciò che resta della combustione e in questo caso una vita cancellata, un passato doloroso che vive come una ferita nel cuore di chi resta, infatti la combustione arde nel ricordo e nell’anima. Elisabeth Gille, autrice di questo bellissimo libro, è la figlia minore della scrittrice Irène Némirosky, che in più occasioni ho avuto l’onore di presentare con le mie impressioni di lettura. E se da una madre eccelsa abbiamo gustato i suoi capolavori letterari, altrettanto in Elisabeth troveremo note armoniche di scrittura, un affresco descrittivo emozionante. In fin dei conti, “Un paesaggio di ceneri” è il proseguimento del capolavoro “Suite Francese” scritto dalla Némirovsky prima di essere deportata ad Auschwitz e se nel primo è narrata l’occupazione nazista in Francia, nel secondo libro la storia prosegue anche dopo la guerra.
   Il romanzo comincia con un NO categorico, un rifiuto che echeggia nel silenzio di un collegio: il clima lugubre sconvolge mentre le suore tentano di spogliare una bimba, Léa, dai suoi abiti di lusso e le strappano la bambola che stringe spasmodicamente a sé. L’operazione si rivela difficile, ma l’attenzione di Léa si sposta sulla camerata e su di una bambina dai grandi occhi azzurri, Bénédicte più grande di lei di due anni, ospite di quel collegio, sarà proprio lei ad occuparsi della nuova arrivata a insegnarle le regole di sopravvivenza: siamo in piano conflitto e i genitori affidano le loro figlie alle suore. Léa non comprende quel distacco e attenderà il padre per molto tempo; parlerà della sua esistenza gloriosa, del suo benessere: in fin dei conti lei ha solo cinque anni e si trova immersa in una dimensione che non le appartiene. La sua amica del cuore l’aiuterà a sopravvivere e la proteggerà in varie situazioni anche quando lasceranno quel collegio e diverranno quasi sorelle: il padre e la madre di Bénédicte adotteranno Léa, quando si renderanno conto che i genitori della bambina non faranno più ritorno essendo stati deportati ad Auschwitz. La protagonista proverà il dolore di essere stata abbandonata dalla sua famiglia che se avesse voluto, a parer suo, avrebbe potuto rifugiarsi in America; lei porterà nel cuore per sempre la ferita dell’abbandono e sarà una creatura fragile che cercherà consolazione nelle ferite procuratesi ad alcune parti del corpo. Smetterà di cercare i genitori, quando comprenderà gli orrori della guerra perpetrati nei confronti degli ebrei; vedrà filmati raccapriccianti sui lager e sulle cataste umane finite nei forni crematori. E a questo dolore devastante si aggiungerà nell’epilogo quello della perdita della sua amica del cuore.
   Elisabéth Gille, nel reale, al tempo della seconda guerra mondiale, essendo figlia di genitori ebrei, scappò con sua sorella maggiore aiutata da una tata e visse inizialmente in vari collegi. Le due sorelle potettero contare su di una rendita di tremila franchi al mese che l’editore della loro madre mise a disposizione attingendo dai diritti d’autore del famoso libro “David Golder”, pubblicato dalla Némirovsky a soli trent’anni. Le due sorelle con questi soldi vissero e studiarono e la figlia maggiore dopo cinquant’anni ricopiò il manoscritto “Suite Francese” e lo dette alle stampe, manoscritto che le fu affidato dal padre prima di essere arrestato; il copioso quaderno era custodito in una pesante valigia che trascinava assieme alla sorella minore. Elisabéth dovette rinunciare alla sua bambola per quella valigia, ecco perché in questo romanzo si fa accenno nella parte iniziale a una bambola strappata e gettata nel fuoco: il crepitio delle braci è il dolore della perdita non solo dell’oggetto ma di quei genitori massacrati ingiustamente. Essi si erano convertiti al cattolicesimo, ma la Francia che apprezzava la scrittrice non aiutò la donna e non le concesse mai la cittadinanza. Quel paesaggio di ceneri avrebbe potuto essere un prato verdeggiante.

mercoledì 8 maggio 2013

Ulteriore rinuncia

   (Ripropongo, per la dolcezza del tema, un mio passato racconto: amore è anche rinuncia incondizionata.)


                      

                                                         

   Si librò in volo disperata per l’estremo viaggio: le certezze erano cresciute assieme all’unica convinzione che si frantumava. Angelica tornò da quel limbo lontano e ripercorse il tunnel che la fece riappropriare del suo corpo dolente, salvo per miracolo. Lunghi giorni di degenza sofferta e di cure mediche restituirono ad Angelica il suo splendido corpo, assieme alle ferite dell’anima che furono risanate da Carlo, fedele compagno di studi. L’amore fu l’unguento per quelle ferite sanguinolenti che si rimarginarono e la fecero tornare alla vita.
   “Vuoi tu Carlo, come tua sposa la qui presente…”
   Il rito solenne unì in matrimonio i due giovani che partirono per trasferirsi in un’altra terra; nuovi orizzonti, nuovi profumi e nuove culture.
   Angelica aveva lo spirito creativo, al liceo artistico dipingeva con maestria e nel matrimonio trovò maggiormente la sua ispirazione; dalle sue mani nascevano dipinti impressionisti di pregio, per lei mostrare l’opera a suo marito era una gioia senza pari. Albe e tramonti si susseguirono nella scena della sua vita che fu radiosa, lo spettro lontano della morte voluta era sepolto nel suo cuore in festa.
   Angelica fu amata e ricompensata dalla nascita, in breve tempo, di quattro figli ai quali lei si dedicò, mettendo da parte la sua arte.
   A nulla valsero le esortazioni sincere e cortesi d’un successo artistico, a nulla valse un invito al vernissage allestito per lei dal premuroso Carlo che volle stupirla, organizzando la mostra a sua insaputa. Angelica mise in primo piano la famiglia e scelse lei.
   Mai un giorno, affiorò nel suo cuore il tarlo dell’insoddisfazione, mai si sentì perdente o frustrata: la vita terrena l’aveva ripresa fra le sue braccia, donandole la maternità nella quale si specchiava fiera.
   Erano trascorsi quindici anni, il suo uomo era sempre innamorato e fedele, i ragazzi stavano crescendo ed Angelica cominciava ad avere più tempo per se stessa, per i suoi spazi; stava riprendendo in mano la sua passione e guardava al futuro rimembrando quelle proposte passate e poi scacciate.
   Quando tutto brillava, si riaffacciò la sofferenza: un’emorragia di sangue fu determinante per un ricovero d’urgenza. All’età di trentasei anni, Angelica fu privata dei suoi organi riproduttivi; un carcinoma all’utero, radicato nella sua intimità stava ramificando in essa. La pianta malvagia fu estirpata assieme alle sue metastasi ed Angelica per una seconda volta tornò in vita, tornò ai beni terreni ed ai suoi cari.
   Quella insoddisfazione che non l’aveva sfiorata con la rinuncia all’arte, ora stava nascendo in lei: il caro Carlo, l’amorevole marito era cambiato, lei sentiva che lui non le apparteneva più. Dolcemente e velatamente egli non la considerò più donna: sera, dopo sera alzò un muro invisibile. Durante il giorno il comportamento non era mutato, Carlo era sempre lo stesso marito, lo stesso padre esemplare, ma la sera egli faceva in modo che non si creasse il frangente amoroso carnale.
   Angelica si sentiva rifiutata. Era una splendida ragazza, la maternità aveva abbellito il suo corpo armonizzandolo, qualunque uomo si sarebbe acceso di desiderio per lei che era l’incarnazione della sensualità. Passavano i giorni e Carlo non mutava, la verità era che lui vedeva sua moglie come un vetro rotto e poi incollato, temeva di infrangerlo e non osava confidarsi con lei. I silenzi divennero agghiaccianti e quando lei chiedeva spiegazioni, lui evadeva il problema e con estrema abilità riusciva a schivare le risposte.
   La rabbia cresceva nel cuore della donna che alla fine stanca si rassegnò a condurre  una vita da asessuata e nuovamente si specchiò nei suoi figli, come per l’arte alla quale rinunciò, per amori dei suoi gioielli accettò la mancanza d’amore carnale in nome della famiglia unita. Condussero una vita di facciata, nessuno s’accorse mai che quella coppia esemplare era unita solo da amore fraterno, il loro comportamento non faceva supporre quella divisione forzata.
   Angelica, anche non avendo la luce nel cuore, trovò la pace nelle sue opere artistiche che realizzò per lei e per i suoi figli ormai sposati e si dedicò alla scrittura di liriche profonde.
   Lei e suo marito conducevano due vite parallele che non s’incrociavano, due binari dello stesso treno che si guardavano senza sfiorarsi.
   Poi un giorno Angelica si iscrisse ad un corso d’informatica, suo figlio maggiore le aveva regalato un computer portatile dicendo: “Mamma, impara ad usarlo, lì c’è tutto un mondo, potrai mettere le tue poesie in vetrina ed interloquire con altri artisti.”
   Scoprì così quel mondo e dette uno scopo alla sua esistenza, in breve tempo divenne tanto brava da occuparsi di un blog tutto suo dove ben presto fu apprezzata ricevendo consensi ed elogi. Lei era per gli amici del Web la poetessa dall’animo gentile, l’artista a tutto tondo che finalmente pubblicò una silloge di poesie , recensita da un critico importante. Internet divenne la sua vita e le fece ritrovare l’amore, un amore virtuale fatto di confidenze, di rime baciate, di spiritualità elegante, di comunicazioni telematiche. Il desiderio sopito negli anni tornò a riaccendersi ed a bruciare ardentemente, la comunione spirituale elevò ad alte sfere quel puro sentimento. L’utente innamorato era tanto più giovane di Angelica, li separavano più di quindici anni, ma nella visione attraverso uno schermo l’età non conta, l’immagine di un viso telegenico migliora.
   Flavio, nonostante avesse un matrimonio stabile e volesse bene alla sua famiglia, si innamorò perdutamente della poetessa gentile, si innamorò della sua essenza, della sua spiritualità, del concerto delle sue parole.
L’appuntamento in rete quotidiano divenne vitale per entrambi: essi si raccontavano, condividendo i momenti della giornata; Angelica dimenticò le sue pene e si animò di nuove energie. La luce traspariva dal suo volto che ringiovanì, assumendo i passati bagliori. Flavio premeva d’incontrarla: era stanco di quell’amore virtuale e lei tornò a tribolare, a macerarsi nel groviglio interiore.
   “Non posso.” diceva accorata. “Non potrei guardare in faccia i miei figli, in passato ho scelto loro ed ora non posso tradirli!”
   “Una volta sola, mio sublime amore.” supplicava Flavio attraverso il video.
   Condividevano la passione per l’opera, tante volte si erano soffermati sui vari autori e sulle loro composizioni. A Milano inauguravano la stagione teatrale con la prima della Boheme di Puccini, Angelica per quella serata speciale aveva ricevuto l’invito da suo figlio, professore al Conservatorio, e lei lo comunicò a Flavio.
   “Se vorrai vedermi di persona, sarò a teatro con mio figlio. Quando mi vedrai non mi amerai più e capirai che sono vecchia per te.”
   Il Teatro alla Scala pullulava di gente elegante e ricercata, era tutto un vociare sommesso che attendeva. Lei fra la gente intravide Flavio che le sorrise languido. Le note di “Una gelida manina” non riuscirono a mitigare le sensazioni esplosive del suo cuore, cercò di darsi un tono,  non voleva che suo figlio s’accorgesse. Alla fine della rappresentazione, tanti s’avviarono ai ridotti, altri all’uscita, Angelica seguita dal suo primogenito stava per lasciare il teatro, quando fu avvicinata da Flavio.
   “Signora, ha perso il libretto. Prego, l’ho recuperato per lei.”
   “La ringrazio, molto gentile.” rispose imbarazzata con voce tremante.
   Tornata a casa, nella solitudine della sua camera privata, quella in cui s’appartava per creare e per interagire con gli utenti del Web, sfogliò quel libretto e vi trovò una dedica.
   “Rosa delicata, vorrei coglierti ora, vorrei sfiorarti, vorrei farti mia!”
   Si commosse e si fece forza, mentre calde lacrime rigarono il suo volto. Accese il computer, si connesse ed inviò un messaggio privato a Flavio.
   “Non potrò mai essere tua, ancora una volta ho scelto ‘loro’, le mie creature adorate.”