Il titolo di questo
libro è un bigliettino da visita sul tema portante del romanzo stesso: le
ceneri rappresentano la distruzione, ciò che resta della combustione e in questo
caso una vita cancellata, un passato doloroso che vive come una ferita nel
cuore di chi resta, infatti la combustione arde nel ricordo e nell’anima. Elisabeth
Gille, autrice di questo bellissimo libro, è la figlia minore della scrittrice
Irène Némirosky, che in più occasioni ho avuto l’onore di presentare con le mie
impressioni di lettura. E se da una madre eccelsa abbiamo gustato i suoi
capolavori letterari, altrettanto in Elisabeth troveremo note armoniche di
scrittura, un affresco descrittivo emozionante. In fin dei conti, “Un paesaggio
di ceneri” è il proseguimento del capolavoro “Suite Francese” scritto dalla
Némirovsky prima di essere deportata ad Auschwitz e se nel primo è narrata
l’occupazione nazista in Francia, nel secondo libro la storia prosegue anche
dopo la guerra.
Il romanzo comincia
con un NO categorico, un rifiuto che echeggia nel silenzio di un collegio: il
clima lugubre sconvolge mentre le suore tentano di spogliare una bimba, Léa,
dai suoi abiti di lusso e le strappano la bambola che stringe spasmodicamente a
sé. L’operazione si rivela difficile, ma l’attenzione di Léa si sposta sulla
camerata e su di una bambina dai grandi occhi azzurri, Bénédicte più grande di
lei di due anni, ospite di quel collegio, sarà proprio lei ad occuparsi della
nuova arrivata a insegnarle le regole di sopravvivenza: siamo in piano
conflitto e i genitori affidano le loro figlie alle suore. Léa non comprende
quel distacco e attenderà il padre per molto tempo; parlerà della sua esistenza
gloriosa, del suo benessere: in fin dei conti lei ha solo cinque anni e si
trova immersa in una dimensione che non le appartiene. La sua amica del cuore
l’aiuterà a sopravvivere e la proteggerà in varie situazioni anche quando
lasceranno quel collegio e diverranno quasi sorelle: il padre e la madre di
Bénédicte adotteranno Léa, quando si renderanno conto che i genitori della bambina
non faranno più ritorno essendo stati deportati ad Auschwitz. La protagonista
proverà il dolore di essere stata abbandonata dalla sua famiglia che se avesse
voluto, a parer suo, avrebbe potuto rifugiarsi in America; lei porterà nel
cuore per sempre la ferita dell’abbandono e sarà una creatura fragile che cercherà
consolazione nelle ferite procuratesi ad alcune parti del corpo. Smetterà di
cercare i genitori, quando comprenderà gli orrori della guerra perpetrati nei
confronti degli ebrei; vedrà filmati raccapriccianti sui lager e sulle cataste
umane finite nei forni crematori. E a questo dolore devastante si aggiungerà
nell’epilogo quello della perdita della sua amica del cuore.
Elisabéth Gille,
nel reale, al tempo della seconda guerra mondiale, essendo figlia di genitori
ebrei, scappò con sua sorella maggiore aiutata da una tata e visse inizialmente
in vari collegi. Le due sorelle potettero contare su di una rendita di tremila
franchi al mese che l’editore della loro madre mise a disposizione attingendo
dai diritti d’autore del famoso libro “David Golder”, pubblicato dalla
Némirovsky a soli trent’anni. Le due sorelle con questi soldi vissero e
studiarono e la figlia maggiore dopo cinquant’anni ricopiò il manoscritto
“Suite Francese” e lo dette alle stampe, manoscritto che le fu affidato dal
padre prima di essere arrestato; il copioso quaderno era custodito in una
pesante valigia che trascinava assieme alla sorella minore. Elisabéth dovette
rinunciare alla sua bambola per quella valigia, ecco perché in questo romanzo
si fa accenno nella parte iniziale a una bambola strappata e gettata nel fuoco:
il crepitio delle braci è il dolore della perdita non solo dell’oggetto ma di
quei genitori massacrati ingiustamente. Essi si erano convertiti al cattolicesimo,
ma la Francia che apprezzava la scrittrice non aiutò la donna e non le concesse
mai la cittadinanza. Quel paesaggio di ceneri avrebbe potuto essere un prato
verdeggiante.