Sono in ritardo… come sempre.
Scendo le scale velocemente, mi separano quattro marciapiedi dalla
fermata dell’autobus, sempre lo stesso che da vent’anni mi accompagna al lavoro.
Il tratto è lungo e ogni giorno il vecchio autobus percorre svariati Km, in discesa fra le colline della Bassa Brianza, luogo
incantevole della Lombardia, per
raggiungere la parte pianeggiante dove
sorgono diverse fabbriche che attendono noi lavoratori quotidiani.
Io presto servizio presso un mobilificio e mi occupo del settore vendite
con professionalità e impegno tali, da meritarmi recentemente la nomina a
responsabile della nuova struttura più ampia, fornita anche di arredamenti di
tendenza.
E’ una mattina come tante e si annuncia simile alle altre. Sono fuori
dal portone di casa, il sole splende in questa primavera inoltrata. Inforco gli
occhiali da sole: la luce mi abbaglia, mi guardo intorno e non scorgo nessuno,
come sempre. A quest’ora del mattino la cittadina tace e io mi appresto a cominciare una nuova giornata, ancora una volta con l’amaro in bocca; l’amaro
della solitudine, l’amaro della sofferenza che vive in me da quel giorno
maledetto in cui mia figlia, aprendo la porta di casa, mi urlò: “A non più
rivederci, mamma! Tu per me sei morta!”
Debora, amore mio, io continuo a vivere perché la speranza di rivederti
mi aiuta a vivere e quando tornerai, dovrai trovarmi! E io fingerò che non sia
successo nulla e ti accoglierò come se fossi uscita da qualche ora.
Siamo in tanti alla fermata, ci conosciamo un po’ tutti.
“Ehilà Silvana, come la va, oggi?” mi domanda sorridendomi la Cesarina.
“Va di un bene. Sono la persona più felice di questa terra!”
“Ma dai Silvana, vedrai che Debora ritorna.” mi dice comprensiva. “Le passerà, la mamma è
sempre la mamma!”
Ci spingiamo con delicatezza, mentre percorriamo lo stretto corridoio
alla ricerca del posto a sedere; ne trovo uno libero e mi ci accomodo. Apro la
borsa per riporre i miei occhiali da sole, ma poi ci ripenso: la luce
abbacinante giunge sino alla mia postazione; li inforco nuovamente e appoggio
la testa sul sedile, mentre il movimento lento del pullman mi induce a pensare.
Torno mentalmente a quella sera… eravamo felici Debora e io: non ci
mancava nulla. Una bella casa e un lavoro dignitoso che avevo sin dall’inizio
del mio matrimonio poi vanificato, quando quel traditore di mio marito decise di trasferirsi in un’altra città con una biondina ossigenata.
Era venuta su bene lo stesso Debora che, dopo aver preso il diploma,
aveva trovato lavoro in un centro commerciale. La sera quando ci ritrovavamo,
alla fine di una giornata di lavoro, era sempre una festa: sembravamo due
coetanee amiche. Non c’erano segreti fra noi, io conoscevo le sue storie
d’amore e cercavo di metterla in guardia, dopo l’esperienza negativa avuta con
suo padre. Tutto era perfetto… sino a quella sera.
“Silvana sono tornata, dove sei?”
“Sono in bagno, tesoro!” le piaceva chiamarmi per nome, lo faceva molto
spesso, soprattutto nei momenti di massima gioia.
“Allora Debora che succede? Sei tutta elettrizzata!”
“Mamma, prepara una cena con i fiocchi, stasera conoscerai il mio
fidanzato!”
“Fidanzato! Che parolona, sarà come gli altri ragazzi, tu hai solo
diciannove anni, non farai sul serio?”
“Lui è diverso, quando lo conoscerai, capirai! Ci sposiamo, mamma ci
sposiamo!”
Ero preoccupata, ma finsi di non esserlo. Approntai una cena speciale,
me la cavavo bene in cucina; dopo misi su un abitino decente, mi guardai allo
specchio e l’immagine che rifletteva non era niente male; potevo essere fiera
di me stessa: all’età di quarant'anni anni avevo un’aria molto giovanile, in
tanti credevano fossi la sorella di Debora.
Stavo per entrare in soggiorno, quando attraverso la porta a vetri che
separava la zona notte, lo vidi!
‘No!’ mi dissi. ‘Lui no!’ Io lo conoscevo, alla stessa età di mia figlia
c’ero cascata anch’io: mi ero innamorata di quell’infame torbido rubacuori.
L’avevo incontrato per strada e mi aveva pedinato, poi entrando in casa avevo
sentito squillare il telefono … Che tempismo, era lui!
“Sei tu quella bella bambina di poco fa?”
“Come dici, e tu chi sei?”
“Dai che lo sai! Ti ho vista che mi guardavi.”
“Come hai fatto ad avere il mio numero di telefono? Lascia stare.” continuai.
“Ho capito … hai letto il cognome al citofono.”
“Che scuola frequenti, che passo a prenderti!”
Incominciò così la nostra storia, fui affascinata dalla sua eleganza,
dalla sua cultura e anche dal suo benessere; ancora un po’ e sarei caduta nelle
sue grinfie: egli era un “Pappone”. Un
mio caro amico mi mise in guardia e lo affrontò, liberandomi per sempre della
sua presenza, e ora lo rivedevo a casa mia con mia figlia, dopo vent’anni non
aveva perso il vizio di avvicinare le brave ragazze.
“Questa volta” pensai “dovrai vedertela con me, parassita!”.
Entrai nella sala e lui con disinvoltura si alzò e mi venne incontro.
“Signora è un piacere conoscerla, Debora mi parla spesso di lei e di
tutti i sacrifici che ha fatto nella sua vita. Le vuole bene, tanto bene!”
“Basta con questa commedia!” esordii con rabbia. “Non ti ricordi proprio
di me? Non sono poi così vecchia! Ti occupi sempre dello stesso giro d’affari?
Brutto porco! Tu mia figlia la lasci stare, lei ti cancella ora! Fuori di qui!”
“Mamma come ti permetti? Io lo amo, stiamo per sposarci e tu mi distruggi!
Hai sbagliato persona.”
“Mandalo via tesoro.” le dissi accorata. “Per lui sei solo merce.”
Sentii il tonfo della porta, Debora era uscita assieme a lui. Caddi
esausta sul divano e incominciai a piangere singhiozzando, non mi accorsi del
tempo che passava. Alzai lo sguardo e vidi che l’orologio segnava la mezzanotte,
quando udii il rumore delle chiavi nella toppa. Era lei, Debora, era tornata.
Mi guardò di ghiaccio, i suoi occhi trapassarono il mio cuore.
“Sei ancora innamorata di lui? Mi ha raccontato della vostra storia
giovanile, è per questo che hai voluto infangarlo! Me ne vado, mamma, tu per me
sei morta!”
Sento la frenata dell’autobus e mi sveglio da quel torpore, ogni qual
volta mi eclisso con la mente, i ricordi prendono il sopravvento.
Sto per alzarmi, lo fa anche la mia vicina di sedile, giro il capo e la
guardo come faccio sempre, per un saluto formale prima di andar via.
Ci fissiamo a vicenda, non proferiamo parola, poi…
“Mamma, sei tu? Non sei cambiata, sei sempre la stessa Silvana!”
Una storia più attuale di quanto a prima vista uno potrebbe immaginare. Ben raccontata con il tuo consueto stile fluido.
RispondiEliminaUn abbraccio.
Ti ringrazio, amica fedele.
EliminaUn abbraccio
Annamaria