Sotto un altro cielo
(Laurana Editore)
Le radici vanno rinnegate:
occorre salvarsi dal mostro dell’orrore, della distruzione, della miseria e
della morte. Fuggire, solo fuggire: non c’è via d’uscita! E si segue la marea,
quella massa umana che ha il volto della disperazione. Non v’è certezza di
salvezza, ma quand’anche non ce ne fosse, sarebbe peggio rinunciare e attendere
la fine. Il mare rappresenta quella salvezza. Ma nel dolore, i traghettatori di
anime hanno un unico scopo: il denaro. E caricano su mezzi di fortuna persone
come fossero scarti da gettare via. Ed è quello che accade! Il fenomeno
migrazione ha raggiunto livelli spropositati, il popolo martoriato dalle
guerre, dal regime, dal terrorismo e dalla fame fugge per non morire nella
propria terra. Famiglie intere raccolgono i loro risparmi per pagarsi a caro
prezzo il viaggio della speranza. Ogni giorno le immagini televisive ci mostrano
lo strazio di queste persone che affrontano l’impossibile: chi riesce a toccare
terra, nei luoghi del divieto, affronta il muro dell’indifferenza e del
rifiuto. Questo libro, una silloge di racconti e contributi, nasce per dare
voce a questo dolore, dieci scrittori importanti raccontano una storia sul tema
immigrazione, l’uso della scrittura per svegliare le coscienze e dare uno scossone
a coloro che credono di sapere, facile quando il dramma non si vive sulla
propria pelle, e soprattutto la scrittura come arma contro i pregiudizi e gli
avvoltoi che speculano sul dolore.
Il primo racconto, dal titolo
“Un corpo gettato via” a firma di
Dacia Maraini, ci narra la storia del bambino morto sulla spiaggia di Kos in
Grecia, di quel bambino la foto fece il giro di mezzo mondo, lasciandolo sconvolto;
un tronco approdato sulla spiaggia,
narra con dolorosa mestizia l’autrice. 5.860 dollari per scappare dalla Siria e
tentare la traversata su di un gommone affidato forzatamente all’inesperto
padre del bambino. Un padre che tenterà il tutto per tutto quando i due scafisti,
dopo aver incassato i soldi, abbandoneranno il natante. La storia troverà l’innesto con la vicenda
personale della voce narrante, la fuga dall’orrore della guerra e la fuga del
compagno della protagonista dalla mancanza di lavoro. Con scrittura lieve e
profonda possiamo vivere la sofferenza del padre siriano che cerca
disperatamente il figlio: è buio, si è scatenata una rissa, sono finiti in mare
e i falsi giubbotti non li aiutano a galleggiare. La luce del sole restituirà il
corpo esanime del bambino che pare addormentato sulla spiaggia, si chiamava
Aylan Kurdi e con i suoi genitori era diretto verso il Canada dove vive una
parente, ma occorreva passare prima dalla Grecia.
Shankar è il titolo del secondo racconto a firma di Giampiero Rossi
che ci parla delle emozioni e aspirazioni di un ragazzo indiano, un
giovanissimo uomo che sin da piccolo coltiva un sogno: “guidare un’auto e possederla
per poter viaggiare”. Shankar appartiene a una modestissima famiglia indiana,
mezzi di locomozione neanche l’ombra, solo uno zio diviene un personaggio per
essere possessore di una scalcinata auto che accende le fantasie del bambino.
Shakar con il suo impegno nello studio e nel lavoro riesce ad accantonare la
somma per prendersi la patente e sarà quest’ultima che gli darà la possibilità
di poter guidare: sarà assunto come autista al servizio mobilità del complesso
alberghiero. Su e giù in un andirivieni lento e sempre uguale, ventiquattr’ore
al giorno per caricare turisti e accompagnarli nei percorsi interni delle
strutture alberghiere; abilità di guida nell’accelerare e scalare le marce,
nulla, più che meno suonare il clacson per sentire quel suono che scandisce normalmente
il traffico nelle città indiane. Regole, solo regole e i clienti sono
importanti, per di più turisti che giungono da ogni parte del mondo. Shakar
deve ubbidire e non trasgredire: quei soldi gli servono per aiutare la
famiglia. Il ragazzo dai profondi occhi scuri non può dare prova della sua
destrezza alla guida, non può intavolare nessun tipo di discorso con i clienti,
deve solo proseguire la sua lenta marcia anche di notte, sono concesse solo due
ore di sonno, e tutto per un modesto compenso: diecimila rupie, ossia circa 150
euro. Gli occhi del ragazzo si apriranno quando conoscerà una giovane cliente
che lo farà riflettere; egli abbandonerà l’India e giungerà in Italia credendo
di trovare una condizione lavorativa migliore, invece sarà costretto a lavori
più infimi che gli faranno rimpiangere la sua terra.
“2 atmosfere” è il titolo del terzo racconto a firma di Gianfranco
Di Fiore che in un crescendo descrittivo ci narra del degrado, tormenti,
miseria, sfruttamento subiti dalla manovalanza clandestina. Il protagonista è
un giovane di vent’anni, Adil, giunto in Italia quindici anni prima, un
bracciante addetto alla raccolta dei pomodori, un ragazzo che accarezza il
sogno di poter illuminare la sua lercia e putrida baracca con un fascio di luci
colorate. L’unico suo svago è la musica e immagina di acquistare un generatore
di luci per dare vita a quella topaia dal tetto bucato trasformandola in
discoteca, un luogo ricreativo dove poter invitare la sua innamorata, Rita, una
ragazza che si occupa del distributore di benzina situato dall’altra parte
della statale, proprio di fronte al complesso di baracche occupate dai
clandestini. Due atmosfere di vita
sofferta che s’incontrano e s’innamorano: lei lavora e sostituisce il padre
nella conduzione economica familiare, lui, il ragazzo siriano, il padre è
orfano di padre e vive una condizione lavorativa pesante che non trova mai sollievo
neanche durante la breve permanenza nel ricovero. Siamo a conoscenza delle condizioni disumane
di queste persone sottoposte a uno sfruttamento che è simile allo schiavismo
del medioevo, ma leggendo questo racconto ci parrà di essere nei luoghi del
degrado, ci parrà di respirare le loro angosce, le loro prove; entreremo in
contatto con una realtà che spesso tentiamo d’ignorare oppure ne parliamo
soltanto, fingendo compassione; l’autore ci mette in contatto con questi
drammi, anzi con la sua pregiata scrittura ce li fa vivere con profonda emozione.
“L’ultima fuga” è il titolo del quarto
racconto a firma di Renato Minore che ci introduce nella Francia al tempo della
seconda guerra mondiale, quando tutti fuggono da Parigi per mettersi in salvo
dalle armate tedesche. La popolazione cerca riparo a sud e la Spagna rappresenta
la salvezza. I fuggitivi si ritrovano tutti a Lourdes e fra di loro una coppia
il cui coniuge, con appartenenza religiosa ebrea e possibilità di conversione
cristiana, fa voto di raccontare la storia di Bernadette se mai usciranno vivi
da quell’incubo. Nel gruppo dei
fuggiaschi c’è un filosofo ebreo tedesco che come gli altri cerca di sfuggire
alla cattura dei profughi. Gli ebrei sono in una lista nera e vanno consegnati
alla Gestapo. Per uscire dalla Francia occorre un’autorizzazione impossibile da
ottenere e lui decide di passare la frontiera come clandestino. Non abbandona
mai una pesante borsa nera nella quale custodisce un manoscritto, l’orologio
del nonno e una boccetta sigillata. La traversata sui monti impervi sarà
faticosa e lo porterà allo stremo delle forze. La frontiera non è più transitabile
e i clandestini devono tornare in Francia dove saranno condotti nei lager nazisti
o nei campi francesi per profughi. Il filosofo si toglierà la vita con la
morfina della sua boccetta: non ha le forze per percorrere nuovamente i
Pirenei, di lui resteranno a memoria la borsa nera e una lapide sul muro di
cinta del camposanto. La storia è narrata con ritmo incalzante e in modo
magistrale, la scrittura pregevole ci fa
riflettere sul dolore dei profughi di ogni tempo.
“Leonie” è il titolo del quinto racconto
a firma di Francesca Pansa che con struggente e mirabile narrazione ci porta a
conoscere le tribolazioni del popolo africano costretto a scappare dalle
dittature e rivolte contro l’aguzzino, scappare dalle violenze e dalla miseria,
abbandonare la propria terra non per scelta ma per costrizione. La voce
narrante avrebbe voluto conoscere la donna, Leonie, ritrovata morta sulla
spiaggia dell’Arenella tra i sassi di Pantelleria. Avrebbe voluto esserle
amica, sapere della sua infanzia, del suo innamoramento per il futuro marito,
un insegnante, e avrebbe voluto farsi raccontare della sua fuga disperata alla
ricerca del domani. Avrebbe voluto conoscerla prima per aiutarla e donarle un
futuro migliore, avrebbe voluto condividere le sue speranze e emozioni di madre
di cinque figli. Avrebbe, solo avrebbe: a causa dello scafista sciagurato che
per quattro giorni ha tenuto tra la vita e la morte più di duecento persone su
di un barcone sballottato dal mare in tempesta, quella conoscenza non c’è mai
stata. La motovedetta li avvista e tenta il salvataggio dei superstiti, se ne
parlerà con rammarico e dolore per via dell’evoluzione tragica; diversamente
sarebbe stato un ennesimo approdo, ritenuto scomodo per le pratiche da
espletare e per i costi da affrontare. Il dolore diviene una colpa per la gente
in fuga.
“Il drago di Berat”è il titolo del sesto
racconto a firma di Pierfrancesco Majorino che riaccende i riflettori
sull’esodo in massa degli albanesi nell’agosto del 1991, albanesi che all’epoca
presero d’assalto la Puglia costretta ad affrontare un’emergenza di immani
proporzioni: 27 mila profughi che fuggivano dalla dittatura comunista e dalla
crisi economica, un esodo biblico, il primo verso l’Italia. La storia mette a
confronto due importanti periodi e ci parla
di un ragazzino albanese nato in Italia, egli vive in un condominio milanese e
fa amicizia con un misantropo ragioniere del palazzo, la cui unica compagnia
sono i suoi giornali. Il ragioniere conserva i
giornali uno per uno da un tempo infinito, e proprio attraverso uno di
questi quotidiani datati il bambino, Nicolas, vedrà la foto dello sbarco
storico degli albanesi e saprà che in quella foto c’era anche suo padre giunto
in Italia con la sua storia di dolore e fierezza per quello che rappresentava la
sua famiglia prima della crisi. Ora l’Albania finge di non ricordare il suo
passato e teme l’arrivo dei profughi, quella stessa Albania, che fu profuga per
disperazione, chiude le porte agli invasori. Umanità ricevuta in cambio dona indifferenza.
Nicolas ha ora ventisette anni e accoglie i profughi a Bruxelles, ha il compito
di metterli in salvo attraverso le frontiere, lui è il drago di Berat, così
come chiamavano suo nonno, abile chitarrista nei circhi albanesi al tempo in
cui Tirana era gemellata con il grande circo di Mosca.
“Latte appena macchiato” è il settimo racconto a firma di Simone
Gambacorta che con stile fresco al passo con i tempi ci parla di una storia
intrisa di classismo e di scalata economica, una storia che punta il dito sul
conservatorismo e sull’atteggiamento dei tradizionalisti legati al mondo
elitario. Conosciamo il protagonista, Gianni, che sposando la figlia di un
industriale s’impegna a tutto tondo nella conduzione della fabbrica facendola
crescere, ma non solo: Gianni s’imbeve di tutte le abitudini del mondo bene,
circoli, viaggi esclusivi, cene e pranzi con gli amici più in vista, selezione
accurata delle frequentazioni per rispettare quel cliché del mondo di facciata
privo di sensibilità. In un crescendo di elucubrazioni da parte di Gianni convocato
da un “dottorino”, come la voce narrante lo definisce, un laureato in
giurisprudenza, apprenderemo una storia fatta di emarginazione: un amico del
gruppo frequenta una ragazza mulatta, cittadina italiana, e a quel punto lui va
allontanato, come se il colore della pelle, latte appena macchiato, fosse un
problema per i conservatori. Una storia che ben s’inserisce nel contesto di
questa silloge: fuggire da un mondo che
poggia sui valori formali ancora pregni di razzismo.
“Donne di ferro” è l’ottavo racconto a firma di Claudio Volpe che
con stile incisivo ci fa conoscere gli orrori perpetrati dalle donne
appartenenti al califfato, la narrazione in questo brano è come un fendente che
lacera il cuore. L’autore conosce l’arte della scrittura: mentre si legge, si
vive il tormento di un fondamentalismo scellerato che va al di là di ogni
immaginazione. La voce narrante, in prima persona, ci racconta del suo approccio
ed iniziazione al vero islamismo che credeva fosse amore per Allah; ci narra
delle uniforme indossate dalle donne, il burqa, e apprendiamo che a ciascuna di
loro è consegnato un Kalashnikov che dovrà vivere con loro. Veniamo a
conoscenza di come queste donne, per ordine dell’emira, preparino le bambine,
di età compresa dai nove ai tredici anni, per consegnarle ai combattenti come
premio che soddisfi i loro appetiti sessuali. Ci parrà di udire gli strazi e i
gemiti delle fanciulle e ci parrà di vedere il sangue verginale sul pavimento.
Proveremo il dolore lacerante delle donne punite per peccati non commessi: anche
mostrare il seno per allattare è un peccato; donne alle quale sarà strappato
dall’emira del califfato il capezzolo a morsi con una dentiera di ferro, la
stessa dentiera che sarà costretta a usare la protagonista per non subire la
medesima punizione. Macabre torture, corpi gettati vivi nel vuoto, acidi e
fruste tutto in nome di un falso Allah giustiziere. C’è chi si ribella alla
cruenta malvagità e per farlo deve scappare, lei, la voce narrante, ha ingoiato
quello strazio fino allo sfinimento e decide di fuggire con sua sorella,
giungeranno in Italia quando l’Isis ha colpito la Francia, quello stesso Isis
dal quale le due donne stanno scappando. Ora devono difendersi da chi crede che
il mondo islamico sia solo e sempre odio e sangue!
“L’ignoranza” è un
contributo a firma di Paolo di Paolo che affronta con competenza il tema del
razzismo, di quell’emarginazione che marca i confini dell’ignoranza:
accoglienza uguale sospetto, accettazione marchiata dal dubbio e dal convincimento
che l’origine religiosa e il luogo di provenienza facciano la differenza. Far
girare una voce, seminare il sospetto, diffondere un volantino, creare
l’atmosfera di pregiudizi, di diffidenza, condizionare le menti già accomunate
da quegli stereotipi inossidabili per ignoranza. Giudicare secondo quei cliché
e non riflettere sulle motivazioni che hanno creato e creano il costante
migrare. Paolo di Paolo cita titoli di libri che ci consiglia di leggere,
autori italiani e stranieri che parlano di quei drammi e vicissitudini, libri
di grande spessore per la qualità di scrittura. Mi ha colpito una
considerazione: “se io aiuto te, è come se tu assistessi me, e lui
venisse incontro a lei, e noi appoggiassimo voi, e loro sostenessero tutti gli altri”. Noi e loro in uno scambio di
storie, una condivisione di culture, e come accade ovunque, c’è chi percorre la
strada del bene e chi decide il contrario, sotto questo cielo siamo tutti
uguali.
“In che lingua lo ami” è un contributo a firma di Michela Marzano che
ci parla dell’amore fra due persone di diversa nazionalità. Il cuore palpita
nello stesso modo da occidente a oriente, ma la lingua, quella respirata dalla
nascita, quella che attraversa ogni cellula della conoscenza e del pensiero,
quella lingua resterà sempre la propria e sarà un marchio di identificazione.
Anche se ci si trasferisce in un luogo straniero per meriti speciali o per
intraprendere un lavoro, la lingua, poi, acquisita non sarà mai completamente
propria: sarà l’accento il bigliettino da visita e pur avendo lo stesso colore
di pelle, quell’inflessione linguistica sarà un’identificazione che porterà gli
altri a guardarti con circospezione. Ecco
che il muro della diffidenza si alzerà in talune occasioni: le radici non si
strappano, non si devono strappare ma creano barriere.
“La forza di uno scatto” ultimo contributo a firma di Alessandro Di
Meo fotoreporter dell’Agenzia Ansa che con mielata mestizia ci racconta del
naufragio a Catania di un barcone carico di migranti, il mare restituì ottocento
morti, difficile scattare foto al dolore di una morte ingiusta e di così enormi
proporzioni. Egli giunto a destinazione s’imbatte nei sopravvissuti, soltanto
27, e ne fotografa l’arrivo, successivamente s’imbarca sul pattugliatore della
Guardia di Finanza che va in perlustrazione. Constaterà che i gommoni dei
migranti sono delle zattere con un tubolare attaccato intorno: basta una
qualunque vibrazione per farle affondare. Con perizia dei soccorritori i
migranti vengono tratti in salvo, ognuno ringrazia come può, ognuno prega come
sa fare e lui, il foto reporter, preferisce conservare gli scatti più belli nel
suo cuore. Essere a contatto con le dure realtà fa comprendere sino in fondo,
guardare negli occhi il dolore fa entrare in simbiosi con la sofferenza.
In postfazione Claudio Volpe
parla del progetto di usare la scrittura come strumento e ringrazia tutti gli
autori che avendo la sua stessa sensibilità, lo hanno reso possibile.
Davvero una grande partecipazione per questo libro "tematico"! Probabilmente tutti gli europei... dovrebbero essere obbligai a leggerlo ;-)
RispondiEliminaSempre accurate le tue recensioni :-)
Un caro saluto!
www.wolfghost.com
Grazie a te per la sensibilità di pensiero.
EliminaBuona giornata, caro amico.
Affettuosità
Annamaria
Sei portatissima per le recensioni (e anche per i racconti, beninteso).
RispondiEliminaUn bacione!
Grazie! Ti auguro una buona serata.
EliminaUn abbraccio
Annamaria
Un libro attualissimo e con firme importanti. Sicuramente da leggere.
RispondiEliminaNon possiamo essere indifferenti a questo fenomeno, non esistono radici quando la terra è tanto secca o acida da avvelenarle sin dalla nascita.
Ciao, buona domenica.
Marirò
Grazie per aver interpretato il messaggio. Buona domenica e buona festa della mamma.
EliminaUn abbraccio
Annamaria
Un abbraccio, cara.
RispondiEliminaGrazie, ricambio di cuore.
EliminaAnnamaria