"Non ce la faccio più! Qualcuno mi
aiuti!" urlava a squarcia gola e le parole si diffondevano in tutto il
circondario. Ma nessuno prestava attenzione o perlomeno si mostrava preoccupato
o dispiaciuto. Gli abitanti del luogo continuavano la loro vita come se quelle
parole non le avessero mai udite. Ogni mattina alla stessa ora e il pomeriggio,
poco dopo l'imbrunire, le frasi accalorate viaggiavano sulle onde del suono.
Era un vasto residence costituito da dieci
palazzoni, sistemati a raggiera, che s'affacciavano sui vialetti stretti
convergenti su di un ampio viale abbellito da giardini privati degli
appartamenti a piano rialzato; quindi un flusso continuo di persone percorreva
lo stradone principale, per accedere nei vialetti secondari conducenti ai portoni
delle abitazioni. Durante la giornata il residence era attraversato da
condomini e nell'atrio principale i suoni dei residenti convergevano, rimbombando come una eco in una voragine montana.
La vita scorreva all'interno di quel residence in
una mescolanza di sensazioni, umori, dispiaceri, vocii, tutto si avvertiva e si
subodorava attraverso le finestre aperte al momento del cambiamento d'aria o
durante i mesi caldi; le vite altrui viaggiavano e penetravano altre intimità
in una mescolanza di emozioni. La tecnologia aveva anche dato un colpo di
familiarità costretta, le conversazioni al cellulare sui balconi non erano più così personali e, come in una sceneggiata da
palcoscenico, in quel complesso residenziale, per forza di cose, si viveva la
vita anche del vicino o del dirimpettaio senza farne parte.
Lei era sensibile, molto sensibile, e quel giorno
in cui le urla angosciate si diffusero maggiormente nell'aria, scese di corsa
e, ignorando la raccomandazione della sua vicina di casa, andò a suonare
all'appartamento del portone accanto che aveva l'esposizione esterna come la
sua: non aveva resistito alle urla di aiuto, di dolore, alle urla insistenti e reiterate. L'accolse una donna sui cinquant'anni stravolta e
ben vestita che non comprese il perché della sua venuta, la trattò in malo modo
e condannò il suo intervento; la giudicò invadente, non dandole nemmeno il
tempo di potersi spiegare e la spintonò verso la balaustra delle scale. La
vicina, quando la vide rientrare mestamente, scosse il capo come a volerle
ricordare il "te l'avevo detto". Ma lei non si capacitava, non tollerava
quell'insensibilità e quel disinteresse collettivo. Che strana gente viveva in
quel complesso, si chiedeva, come facevano a passare oltre, anche fosse stata
una schizofrenica andava aiutata: la persona in questione non aveva nessuno e
viveva da sola. Puntualmente la voce urlante riprese a esternare tutta la sua
rabbia, le richieste d'aiuto si fecero più sonore; la disperazione e la
sofferenza ammorbarono nuovamente quel complesso di case.
Gli abitanti erano
sempre più incuranti, giudicavano quella giovane signora una mentecatta e ne
avevano timore. I servizi sociali informati della situazione, quando
giungevano lì, non trovavano mai nessuno che gli aprisse la porta: lei non
rispondeva e fingeva di non esserci. La sensibile ragazza pensò di contattare
un amico carabiniere e gli chiese d'intervenire per disturbo alla quiete
pubblica. Le forze dell'ordine all'ora della molestia suonarono a quella porta
e la donna gentilmente, dopo averli fatti accomodare, mostrò loro un copione
teatrale ben conservato: in un passato non molto lontano era stata un'attrice
di discreta fama. Le urla erano una recita, davvero realistica, e lei una
povera attrice che non si rassegnava per non cadere in depressione.
"Ma davvero!" esclamò la ragazza
sensibile "Avrebbe potuto dirlo! Poverina, avrebbe bisogno di recitare sul
palcoscenico."
"E no!" rispose l'amico carabiniere e
attore dilettante in un teatro tenda del quartiere. "Non penserai di farla
venire da noi?"
Il complesso residenziale finalmente viveva giorni tranquilli,
solite beghe familiari, solite telefonate esterne o volumi assordanti di
televisori e stereo; si udivano anche strumenti veri che eseguivano quelle
belle evoluzioni musicali dilettantistiche o professionali, ce n'era per tutti
i gusti: era la quotidianità di una famiglia allargata.
La voce fragorosa
dell'attrice dimenticata risuonava ora nel teatro di quartiere, dove la
compagnia teatrale ottenne un discreto successo nella "Bisbetica
domata" di Shakespeare; il ruolo di Caterina, protagonista scontrosa
e irascibile fu affidato a lei, alla condomina urlante di quel ben noto
complesso residenziale.
Sei sempre brava, mia cara amica.
RispondiEliminaGrazie!
EliminaUn abbraccio
Beh, svelato l'arcano resta la bella sorpresa. Però l'attrice non doveva trattare male quell'unica persona sensibile del condominio! Forse gli altri sapevano, chissà... Resta il fatto che non ci si conosce davvero più, nemmeno se si convive a due metri di distanza.
RispondiEliminaCiao Annamaria, un caro saluto e complimenti per l'efficace racconto che offre tanti spunti di riflessione.
Infatti è proprio così: nei condomini siamo degli estranei, i palazzi accolgono tante famiglie che hanno la loro vita al di là della porta che si chiude, è giusto, ma un po' di condivisione, di socialità sarebbe sana condivisione, sano confronto.
EliminaTi ringrazio e ti auguro una buona serata estiva.
A presto, affettuosamente
annamaria