martedì 24 maggio 2016

Pura realtà

              

   So che è arrivato, è in compagnia della sua famiglia, la moglie e il giovane figlio; so che c'è e non nascondo ai miei la curiosità di conoscerlo. Non è il Presidente della Repubblica, né tanto meno un'illustre persona, ma è uno che facendosi da sé e sfidando la sorte, occupa ora un posto di prestigio e il che non è poco.
   Entro con aria di circospezione e mi accorgo subito del nuovo arrivato, dopo i convenevoli e le presentazioni di rito mi accomodo ad una poltroncina in giardino; lui abbastanza informale prende posto di fronte a me, ha un sorriso bonario e sincero, un tipo qualunque mi dico. La conversazione prende quota, così semplicemente: a volte ci immaginiamo delle complicazioni che finiscono poi per dissolversi come bolle di sapone.
   Mi guarda e mi dice: "Ti racconterò la storia della mia vita, sembra una favola, ma è la realtà."
   Sono nato in un paesino che ancora oggi non offre risorse ai suoi abitanti, quella vita mi stava troppo stretta e desideravo realizzarmi, allora partii allo sbaraglio, in tasca avevo solo centomila lire ricevute da mia nonna. Raggiunsi la metropoli per eccellenza e mi adattai a fare lavoretti d'ogni genere, la voglia non mi mancava e il desiderio di farcela era più forte d'ogni cosa. Vissi un lungo periodo di privazioni, di adattamenti, di sopportazioni e di umiliazioni; mio padre venne a trovarmi e quando comprese, mi consigliò di mollare tutto e di tornare al paesello. Io non lo ascoltai e continuai a cercare la mia strada. Il caso volle che potessi essere assunto come cameriere in un noto ristorante della città, meta di uomini che contano nel mondo della finanza, dello spettacolo, della moda. Ero socievole e disinvolto, sapevo come servire ai tavoli con classe e savoir faire  e quando una mattina due uomini ben vestiti chiesero chi avesse servito la sera prima il "dottore", io mi feci avanti con molta naturalezza, mentre i colleghi intimoriti s'inabissarono nelle cucine. Mi fu chiesto: "Lei sa chi ha servito ieri sera?" risposi di no e da quel momento cominciò la mia avventura.
   Il "Dottore" che chiamavano tutti così per il titolo ben meritato, sia per cultura che per importanza, mi volle al suo servizio e lo osservai veramente quando attraverso la vetrata del suo studio mi fece cenno di avvicinarmi; lo osservai quella famosa mattina in cui le sue guardie del corpo mi condussero alla villa in Rolls-Royce. Divenni il suo uomo di fiducia, in breve tempo mi occupai dell'amministrazione del suo impero e imparai il mestiere di organizzatore di grandi eventi; il mio nome divenne importante e conosciuto, ma soprattutto stimato. Restai al suo servizio per un decennio e quando egli morì per cause poco chiare, nonostante la moglie volesse che io continuassi a dirigere il tutto, feci l'organizzatore grandi eventi per uno stilista di fama mondiale, poi di un altro ancora, sinché non fui notato da un imprenditore molto noto che, dopo avermi fatto frequentare un corso formativo di sei mesi, mi nominò suo uomo di fiducia e Personal Coach aziendale. In direzione, attualmente, sono all'ultimo piano nella stanza del capo e quando al mattino varco l'ingresso e prendo l'ascensore per salire in alto, penso costantemente che la vita è fatta di incontri giusti e di tanto impegno, nonché di voglia d'emergere e, nel mio caso, di tanta onestà. Io non sono mai sceso a compressi, conosco segreti che tanti farebbero carte false per venirne in possesso, in passato mi hanno anche fatto delle offerte, ma ho sempre osservato la mia etica, quella che ho ricevuto in dono da mio padre ed è quella che conta più del denaro. Chi mi ha assunto, di volta in volta, sapeva che di me si poteva fidare e che continuerà a fidarsi. Loro, i personaggi molto in vista, senza uno staff alle spalle non potrebbero muoversi ed io sono colui che tiene in piedi lo staff; come abbia imparato a farlo ancora non so.
   Sono senza parole e gli dico: "La tua storia farebbe veramente gola a molti, i personaggi da te nominati sono molto in vista, ma se tu lo facessi non avresti più sul volto quel sorriso sereno."
   "Proprio così!" mi risponde, allora molto semplicemente si alza e si appresta a dare una mano nell'apparecchiare la tavola: è ora di cena e la serata al fresco in giardino ha stuzzicato l'appetito.

giovedì 5 maggio 2016

Impressioni di lettura

                                                                              

                                                        Sotto un altro cielo
                                                         (Laurana Editore)
                                                  

   Le radici vanno rinnegate: occorre salvarsi dal mostro dell’orrore, della distruzione, della miseria e della morte. Fuggire, solo fuggire: non c’è via d’uscita! E si segue la marea, quella massa umana che ha il volto della disperazione. Non v’è certezza di salvezza, ma quand’anche non ce ne fosse, sarebbe peggio rinunciare e attendere la fine. Il mare rappresenta quella salvezza. Ma nel dolore, i traghettatori di anime hanno un unico scopo: il denaro. E caricano su mezzi di fortuna persone come fossero scarti da gettare via. Ed è quello che accade! Il fenomeno migrazione ha raggiunto livelli spropositati, il popolo martoriato dalle guerre, dal regime, dal terrorismo e dalla fame fugge per non morire nella propria terra. Famiglie intere raccolgono i loro risparmi per pagarsi a caro prezzo il viaggio della speranza. Ogni giorno le immagini televisive ci mostrano lo strazio di queste persone che affrontano l’impossibile: chi riesce a toccare terra, nei luoghi del divieto, affronta il muro dell’indifferenza e del rifiuto. Questo libro, una silloge di racconti e contributi, nasce per dare voce a questo dolore, dieci scrittori importanti raccontano una storia sul tema immigrazione, l’uso della scrittura per svegliare le coscienze e dare uno scossone a coloro che credono di sapere, facile quando il dramma non si vive sulla propria pelle, e soprattutto la scrittura come arma contro i pregiudizi e gli avvoltoi che speculano sul dolore.
   Il primo racconto, dal titolo “Un corpo gettato via” a firma di Dacia Maraini, ci narra la storia del bambino morto sulla spiaggia di Kos in Grecia, di quel bambino la foto fece il giro di mezzo mondo, lasciandolo sconvolto; un tronco approdato sulla spiaggia, narra con dolorosa mestizia l’autrice. 5.860 dollari per scappare dalla Siria e tentare la traversata su di un gommone affidato forzatamente all’inesperto padre del bambino. Un padre che tenterà il tutto per tutto quando i due scafisti, dopo aver incassato i soldi, abbandoneranno il natante.  La storia troverà l’innesto con la vicenda personale della voce narrante, la fuga dall’orrore della guerra e la fuga del compagno della protagonista dalla mancanza di lavoro. Con scrittura lieve e profonda possiamo vivere la sofferenza del padre siriano che cerca disperatamente il figlio: è buio, si è scatenata una rissa, sono finiti in mare e i falsi giubbotti non li aiutano a galleggiare. La luce del sole restituirà il corpo esanime del bambino che pare addormentato sulla spiaggia, si chiamava Aylan Kurdi e con i suoi genitori era diretto verso il Canada dove vive una parente, ma occorreva passare prima dalla Grecia.
   Shankar è il titolo del secondo racconto a firma di Giampiero Rossi che ci parla delle emozioni e aspirazioni di un ragazzo indiano, un giovanissimo uomo che sin da piccolo coltiva un sogno: “guidare un’auto e possederla per poter viaggiare”. Shankar appartiene a una modestissima famiglia indiana, mezzi di locomozione neanche l’ombra, solo uno zio diviene un personaggio per essere possessore di una scalcinata auto che accende le fantasie del bambino. Shakar con il suo impegno nello studio e nel lavoro riesce ad accantonare la somma per prendersi la patente e sarà quest’ultima che gli darà la possibilità di poter guidare: sarà assunto come autista al servizio mobilità del complesso alberghiero. Su e giù in un andirivieni lento e sempre uguale, ventiquattr’ore al giorno per caricare turisti e accompagnarli nei percorsi interni delle strutture alberghiere; abilità di guida nell’accelerare e scalare le marce, nulla, più che meno suonare il clacson per sentire quel suono che scandisce normalmente il traffico nelle città indiane. Regole, solo regole e i clienti sono importanti, per di più turisti che giungono da ogni parte del mondo. Shakar deve ubbidire e non trasgredire: quei soldi gli servono per aiutare la famiglia. Il ragazzo dai profondi occhi scuri non può dare prova della sua destrezza alla guida, non può intavolare nessun tipo di discorso con i clienti, deve solo proseguire la sua lenta marcia anche di notte, sono concesse solo due ore di sonno, e tutto per un modesto compenso: diecimila rupie, ossia circa 150 euro. Gli occhi del ragazzo si apriranno quando conoscerà una giovane cliente che lo farà riflettere; egli abbandonerà l’India e giungerà in Italia credendo di trovare una condizione lavorativa migliore, invece sarà costretto a lavori più infimi che gli faranno rimpiangere la sua terra.
   “2 atmosfere” è il titolo del terzo racconto a firma di Gianfranco Di Fiore che in un crescendo descrittivo ci narra del degrado, tormenti, miseria, sfruttamento subiti dalla manovalanza clandestina. Il protagonista è un giovane di vent’anni, Adil, giunto in Italia quindici anni prima, un bracciante addetto alla raccolta dei pomodori, un ragazzo che accarezza il sogno di poter illuminare la sua lercia e putrida baracca con un fascio di luci colorate. L’unico suo svago è la musica e immagina di acquistare un generatore di luci per dare vita a quella topaia dal tetto bucato trasformandola in discoteca, un luogo ricreativo dove poter invitare la sua innamorata, Rita, una ragazza che si occupa del distributore di benzina situato dall’altra parte della statale, proprio di fronte al complesso di baracche occupate dai clandestini.  Due atmosfere di vita sofferta che s’incontrano e s’innamorano: lei lavora e sostituisce il padre nella conduzione economica familiare, lui, il ragazzo siriano, il padre è orfano di padre e vive una condizione lavorativa pesante che non trova mai sollievo neanche durante la breve permanenza nel ricovero.  Siamo a conoscenza delle condizioni disumane di queste persone sottoposte a uno sfruttamento che è simile allo schiavismo del medioevo, ma leggendo questo racconto ci parrà di essere nei luoghi del degrado, ci parrà di respirare le loro angosce, le loro prove; entreremo in contatto con una realtà che spesso tentiamo d’ignorare oppure ne parliamo soltanto, fingendo compassione; l’autore ci mette in contatto con questi drammi, anzi con la sua pregiata scrittura ce li fa vivere con profonda emozione.
   “L’ultima fuga” è il titolo del quarto racconto a firma di Renato Minore che ci introduce nella Francia al tempo della seconda guerra mondiale, quando tutti fuggono da Parigi per mettersi in salvo dalle armate tedesche. La popolazione cerca riparo a sud e la Spagna rappresenta la salvezza. I fuggitivi si ritrovano tutti a Lourdes e fra di loro una coppia il cui coniuge, con appartenenza religiosa ebrea e possibilità di conversione cristiana, fa voto di raccontare la storia di Bernadette se mai usciranno vivi da quell’incubo.  Nel gruppo dei fuggiaschi c’è un filosofo ebreo tedesco che come gli altri cerca di sfuggire alla cattura dei profughi. Gli ebrei sono in una lista nera e vanno consegnati alla Gestapo. Per uscire dalla Francia occorre un’autorizzazione impossibile da ottenere e lui decide di passare la frontiera come clandestino. Non abbandona mai una pesante borsa nera nella quale custodisce un manoscritto, l’orologio del nonno e una boccetta sigillata. La traversata sui monti impervi sarà faticosa e lo porterà allo stremo delle forze. La frontiera non è più transitabile e i clandestini devono tornare in Francia dove saranno condotti nei lager nazisti o nei campi francesi per profughi. Il filosofo si toglierà la vita con la morfina della sua boccetta: non ha le forze per percorrere nuovamente i Pirenei, di lui resteranno a memoria la borsa nera e una lapide sul muro di cinta del camposanto. La storia è narrata con ritmo incalzante e in modo magistrale,  la scrittura pregevole ci fa riflettere sul dolore dei profughi di ogni tempo.
   “Leonie” è il titolo del quinto racconto a firma di Francesca Pansa che con struggente e mirabile narrazione ci porta a conoscere le tribolazioni del popolo africano costretto a scappare dalle dittature e rivolte contro l’aguzzino, scappare dalle violenze e dalla miseria, abbandonare la propria terra non per scelta ma per costrizione. La voce narrante avrebbe voluto conoscere la donna, Leonie, ritrovata morta sulla spiaggia dell’Arenella tra i sassi di Pantelleria. Avrebbe voluto esserle amica, sapere della sua infanzia, del suo innamoramento per il futuro marito, un insegnante, e avrebbe voluto farsi raccontare della sua fuga disperata alla ricerca del domani. Avrebbe voluto conoscerla prima per aiutarla e donarle un futuro migliore, avrebbe voluto condividere le sue speranze e emozioni di madre di cinque figli. Avrebbe, solo avrebbe: a causa dello scafista sciagurato che per quattro giorni ha tenuto tra la vita e la morte più di duecento persone su di un barcone sballottato dal mare in tempesta, quella conoscenza non c’è mai stata. La motovedetta li avvista e tenta il salvataggio dei superstiti, se ne parlerà con rammarico e dolore per via dell’evoluzione tragica; diversamente sarebbe stato un ennesimo approdo, ritenuto scomodo per le pratiche da espletare e per i costi da affrontare. Il dolore diviene una colpa per la gente in fuga.
   “Il drago di Berat”è il titolo del sesto racconto a firma di Pierfrancesco Majorino che riaccende i riflettori sull’esodo in massa degli albanesi nell’agosto del 1991, albanesi che all’epoca presero d’assalto la Puglia costretta ad affrontare un’emergenza di immani proporzioni: 27 mila profughi che fuggivano dalla dittatura comunista e dalla crisi economica, un esodo biblico, il primo verso l’Italia. La storia mette a confronto due  importanti periodi e ci parla di un ragazzino albanese nato in Italia, egli vive in un condominio milanese e fa amicizia con un misantropo ragioniere del palazzo, la cui unica compagnia sono i suoi giornali. Il ragioniere conserva  i  giornali uno per uno da un tempo infinito, e proprio attraverso uno di questi quotidiani datati il bambino, Nicolas, vedrà la foto dello sbarco storico degli albanesi e saprà che in quella foto c’era anche suo padre giunto in Italia con la sua storia di dolore e fierezza per quello che rappresentava la sua famiglia prima della crisi. Ora l’Albania finge di non ricordare il suo passato e teme l’arrivo dei profughi, quella stessa Albania, che fu profuga per disperazione, chiude le porte agli invasori. Umanità ricevuta in cambio dona indifferenza. Nicolas ha ora ventisette anni e accoglie i profughi a Bruxelles, ha il compito di metterli in salvo attraverso le frontiere, lui è il drago di Berat, così come chiamavano suo nonno, abile chitarrista nei circhi albanesi al tempo in cui Tirana era gemellata con il grande circo di Mosca.
   “Latte appena macchiato” è il settimo racconto a firma di Simone Gambacorta che con stile fresco al passo con i tempi ci parla di una storia intrisa di classismo e di scalata economica, una storia che punta il dito sul conservatorismo e sull’atteggiamento dei tradizionalisti legati al mondo elitario. Conosciamo il protagonista, Gianni, che sposando la figlia di un industriale s’impegna a tutto tondo nella conduzione della fabbrica facendola crescere, ma non solo: Gianni s’imbeve di tutte le abitudini del mondo bene, circoli, viaggi esclusivi, cene e pranzi con gli amici più in vista, selezione accurata delle frequentazioni per rispettare quel cliché del mondo di facciata privo di sensibilità. In un crescendo di elucubrazioni da parte di Gianni convocato da un “dottorino”, come la voce narrante lo definisce, un laureato in giurisprudenza, apprenderemo una storia fatta di emarginazione: un amico del gruppo frequenta una ragazza mulatta, cittadina italiana, e a quel punto lui va allontanato, come se il colore della pelle, latte appena macchiato, fosse un problema per i conservatori. Una storia che ben s’inserisce nel contesto di questa silloge: fuggire da un mondo  che poggia sui valori formali ancora pregni di razzismo. 
   “Donne di ferro” è l’ottavo racconto a firma di Claudio Volpe che con stile incisivo ci fa conoscere gli orrori perpetrati dalle donne appartenenti al califfato, la narrazione in questo brano è come un fendente che lacera il cuore. L’autore conosce l’arte della scrittura: mentre si legge, si vive il tormento di un fondamentalismo scellerato che va al di là di ogni immaginazione. La voce narrante, in prima persona, ci racconta del suo approccio ed iniziazione al vero islamismo che credeva fosse amore per Allah; ci narra delle uniforme indossate dalle donne, il burqa, e apprendiamo che a ciascuna di loro è consegnato un Kalashnikov che dovrà vivere con loro. Veniamo a conoscenza di come queste donne, per ordine dell’emira, preparino le bambine, di età compresa dai nove ai tredici anni, per consegnarle ai combattenti come premio che soddisfi i loro appetiti sessuali. Ci parrà di udire gli strazi e i gemiti delle fanciulle e ci parrà di vedere il sangue verginale sul pavimento. Proveremo il dolore lacerante delle donne punite per peccati non commessi: anche mostrare il seno per allattare è un peccato; donne alle quale sarà strappato dall’emira del califfato il capezzolo a morsi con una dentiera di ferro, la stessa dentiera che sarà costretta a usare la protagonista per non subire la medesima punizione. Macabre torture, corpi gettati vivi nel vuoto, acidi e fruste tutto in nome di un falso Allah giustiziere. C’è chi si ribella alla cruenta malvagità e per farlo deve scappare, lei, la voce narrante, ha ingoiato quello strazio fino allo sfinimento e decide di fuggire con sua sorella, giungeranno in Italia quando l’Isis ha colpito la Francia, quello stesso Isis dal quale le due donne stanno scappando. Ora devono difendersi da chi crede che il mondo islamico sia solo e sempre odio e sangue!  
   “L’ignoranza”  è un contributo a firma di Paolo di Paolo che affronta con competenza il tema del razzismo, di quell’emarginazione che marca i confini dell’ignoranza: accoglienza uguale sospetto, accettazione marchiata dal dubbio e dal convincimento che l’origine religiosa e il luogo di provenienza facciano la differenza. Far girare una voce, seminare il sospetto, diffondere un volantino, creare l’atmosfera di pregiudizi, di diffidenza, condizionare le menti già accomunate da quegli stereotipi inossidabili per ignoranza. Giudicare secondo quei cliché e non riflettere sulle motivazioni che hanno creato e creano il costante migrare. Paolo di Paolo cita titoli di libri che ci consiglia di leggere, autori italiani e stranieri che parlano di quei drammi e vicissitudini, libri di grande spessore per la qualità di scrittura. Mi ha colpito una considerazione: “se io aiuto te, è come se tu assistessi me, e lui venisse incontro a lei, e noi appoggiassimo voi, e loro sostenessero tutti gli altri”. Noi e loro in uno scambio di storie, una condivisione di culture, e come accade ovunque, c’è chi percorre la strada del bene e chi decide il contrario, sotto questo cielo siamo tutti uguali.
   “In che lingua lo ami” è un contributo a firma di Michela Marzano che ci parla dell’amore fra due persone di diversa nazionalità. Il cuore palpita nello stesso modo da occidente a oriente, ma la lingua, quella respirata dalla nascita, quella che attraversa ogni cellula della conoscenza e del pensiero, quella lingua resterà sempre la propria e sarà un marchio di identificazione. Anche se ci si trasferisce in un luogo straniero per meriti speciali o per intraprendere un lavoro, la lingua, poi, acquisita non sarà mai completamente propria: sarà l’accento il bigliettino da visita e pur avendo lo stesso colore di pelle, quell’inflessione linguistica sarà un’identificazione che porterà gli altri a guardarti con circospezione.  Ecco che il muro della diffidenza si alzerà in talune occasioni: le radici non si strappano, non si devono strappare ma creano barriere.
   “La forza di uno scatto” ultimo contributo a firma di Alessandro Di Meo fotoreporter dell’Agenzia Ansa che con mielata mestizia ci racconta del naufragio a Catania di un barcone carico di migranti, il mare restituì ottocento morti, difficile scattare foto al dolore di una morte ingiusta e di così enormi proporzioni. Egli giunto a destinazione s’imbatte nei sopravvissuti, soltanto 27, e ne fotografa l’arrivo, successivamente s’imbarca sul pattugliatore della Guardia di Finanza che va in perlustrazione. Constaterà che i gommoni dei migranti sono delle zattere con un tubolare attaccato intorno: basta una qualunque vibrazione per farle affondare. Con perizia dei soccorritori i migranti vengono tratti in salvo, ognuno ringrazia come può, ognuno prega come sa fare e lui, il foto reporter, preferisce conservare gli scatti più belli nel suo cuore. Essere a contatto con le dure realtà fa comprendere sino in fondo, guardare negli occhi il dolore fa entrare in simbiosi con la sofferenza.

   In postfazione Claudio Volpe parla del progetto di usare la scrittura come strumento e ringrazia tutti gli autori che avendo la sua stessa sensibilità, lo hanno reso possibile.